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Salvato da morte certa, scoprono che è un assassino. 40 anni dopo. Miracolo, destino, giustizia? Il puzzle di un enigma

30/01/2025
in Articoli
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Nella notte del 6 gennaio 1982, il destino sembrava aver teso una mano salvifica ad Alan Lee Philips. Disperso tra le montagne del Colorado, bloccato nella neve e in balia di una tempesta feroce, la sua sopravvivenza sembrava appesa a un filo. Il freddo mordente, la notte impenetrabile e la solitudine avrebbero potuto scrivere la sua condanna a morte, se non fosse stato per un passeggero su un aereo commerciale che, scrutando il buio dal finestrino, notò un SOS lampeggiante. Quel passeggero avvisòl’equipaggio, e vennero informate le autorità di terra. Alan Lee Philips sopravvisse. Il salvataggio sembrava un miracolo. La straordinaria avventura, raccontata per anni, è rimasta a lungo nella memoria di coloro che l’hanno vissuta come l’incarnazione della fortuna pura, di un’occasione irripetibile, persino di un disegno divino. Ma quarant’anni dopo, essa si sarebbe arricchita di tinte fosche e inquietanti.

Il DNA, la scienza forense e la perseveranza investigativa hanno portato alla luce una verità che nessuno, all’epoca, avrebbe potuto immaginare: Alan Lee Philips non era un semplice uomo disperso tra i ghiacci. Era un assassino. Quella stessa notte in cui fu salvato, due giovani donne, Annette Schnee e Barbara “Bobbi Jo” Oberholtzer, erano scomparse dalla località sciistica di Breckenridge. I loro corpi vennero ritrovati, uccisi a colpi di arma da fuoco, senza alcun colpevole identificato. Per decenni il caso era rimasto irrisolto, fino a quando la scienza non fece il suo corso, e le prove genetiche condussero dritto a Philips.

La concatenazione degli eventi in questo caso sfida le leggi della probabilità. Quanto era davvero possibile che un passeggero casuale notasse un SOS da un aereo in movimento, che il messaggio fosse trasmesso, che i soccorsi arrivassero in tempo e che, anni dopo, le tecnologie forensi collegassero quell’uomo a due omicidi? Se fosse una sceneggiatura di un film, sembrerebbe forzata.

Quella notte del 6 gennaio 1982, qualcuno guardava dall’alto, ma non per proteggerlo, bensì per assicurarne l’epilogo. E’ incredibile il gioco di coincidenze. Se il passeggero non avesse visto quel segnale di emergenza dal finestrino, se i piloti non avessero avvisato le autorità, Philips sarebbe probabilmente morto quella notte e la sua storia sarebbe finita in quel cumulo di neve, e con lui anche i segreti dei suoi crimini. Ma la vita ha una logica che a volte sembra quella di un romanzo noir, dove ogni elemento si incastra in un disegno più grande inconoscibile. Philips, salvato da un perfetto sconosciuto, ha vissuto abbastanza a lungo da essere scoperto e punito da una tecnologia che nel 1982 non esisteva ancora. Il suo salvataggio lo ha condannato a un destino di giustizia postuma.

Il passeggero che segnalò le luci ha contribuito a salvargli una vita. Ma si può dire che abbia davvero aiutato Philips? Oppure ha semplicemente garantito che il tempo facesse il suo corso, permettendo che la verità emergesse quattro decenni dopo? Il confine tra fortuna e giustizia, tra coincidenza e destino, appare sfumato. Se Alan fosse morto quella notte, il caso sarebbe rimasto per sempre un mistero. Il suo salvataggio, invece, ha permesso che la verità emergesse, chiudendo un cerchio che sembrava irrisolvibile.

Questa storia, che inizia come un classico racconto di sopravvivenza e finisce come un thriller criminale, solleva una domanda intrigante: siamo davvero padroni del nostro destino o siamo pedine di un meccanismo che non conosciamo né controlliamo, in cui ogni azione, ogni sguardo dal finestrino, può diventare la chiave di un enigma più grande? Alan Lee Philips potrebbe aver pensato di essere l’uomo più fortunato del mondo. Invece, la vera sentenza era solo stata rimandata. Forse non è stato il caso a salvarlo. Forse è stata la giustizia a concedersi il tempo di arrivare, paziente, inesorabile, letale come il gelo delle montagne che quella notte avrebbero potuto inghiottirlo.

L’elemento del passeggero che avvista i fari SOS è la chiave di volta della vicenda. Un occhio umano che scruta il buio e scorge un dettaglio che altri avrebbero ignorato. Se quella persona non fosse stata seduta accanto al finestrino, se non avesse guardato in quel preciso momento, Alan sarebbe stato solo un altro disperso inghiottito dalla tormenta. Ma qualcuno lo ha visto, e questo ha segnato il corso della sua vita.

La cosa più affascinante è come la verità abbia saputo attendere. Philips ha vissuto per decenni con il peso delle sue azioni, probabilmente certo di averla fatta franca. Si potrebbe pensare che la sua salvezza quella notte non fosse un regalo del fato, ma un biglietto di sola andata verso una giustizia ritardata. Se fosse morto allora, le famiglie delle vittime non avrebbero mai avuto risposte e il sopravvissuto non sarebbe stato costretto a fare i conti con il passato.

Se Alan non fosse stato salvato, il suo nome sarebbe rimasto sconosciuto e due omicidi sarebbero rimasti irrisolti. È lecito quindi domandarsi: cosa lo ha realmente salvato? La casualità di un passeggero particolarmente attento? Il destino che lo ha voluto esposto alla giustizia? Oppure una macabra ironia della sorte, che gli ha concesso una seconda possibilità solo per vederlo, quattro decenni dopo, inchiodato alle sue colpe?

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Tags: Alan Lee PhilipsassassinoBreckenridgedestinoDNAgiustiziamiracolosalvataggioscienza forensesopravvissuto

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