Dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, stando ai dati del ministero israeliano della Salute, è stato prelevato lo sperma dai cadaveri di più di 200 uomini per una inseminazione o fecondazione. Genitori di giovani soldati caduti in guerra e non sposati hanno richiesto la riproduzione assistita postuma –“Posthumous Assisted Reproduction” – il prelievo di sperma, ovuli o embrioni prima o subito dopo la morte di una persona, e la crioconservazione del campione. Israele è l’unico paese a autorizzare il prelievo di sperma post mortem senza un consenso preventivo, basta che non vi sia alcun divieto, “presunto o sottinteso” – della persona morta. Oggi tra i Paesi dell’OCSE Israele vanta il più alto tasso di fertilità.
Due ricercatrici italiane, Maddalena Fragnito dell’Università degli Studi Roma Tre e Federica Timeto dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – riferisce Huffington Post, hanno studiato il fenomeno e ritengono che esso abbia «a che fare con la preservazione genetica del popolo ebraico, con le strategie demografiche per la sopravvivenza dello stato ebraico e con la sua espansione».
“Non c’entra niente con le politiche demografiche, ci ha detto un prof israeliano, laico e critico sul governo Netanyahu. “ha a che fare la glorificazione dell’individuo e con la sua immortalità. E il colonialismo insediativo.” Fra le motivazioni incontra credito anche la volontà di non mescolarsi con altre etnie, un desiderio di “purezza dell’etnia”. E’ la via dell’immortalità, la conquista della risorgenza senza l’aldilà?
La pratica dell’inseminazione all’interno dell’etnia pone molte domande, cui si può rispondere, o meglio tentare di rispondere, solo conoscendo il mosaico di gruppi religiosi e di etnie che compongo la popolazione israeliana (sette milioni di cittadini)
Essendo uno stato democratico, Israele è governato da partiti di diversa estrazione, che rappresentano etnie diverse (arabi, drusi,ecc) e confessioni religione diverse (le chiese cristiane, l’Islam ecc), aree laiche e gruppi religiosi ebraici, segnati da forti antagonismi, credenze, costumi e tradizioni.
La democrazia poggia su una complessa e solida stratificazione sociale e religiosa, che spiega in qualche misura il bisogno di “non mescolarsi”, il primato dell’appartenenza all’interno di ogni singolo gruppo. L’unità e la fortuna economica dello Stato di Israele appare un autentico miracolo, costituisce un unicum, l’equivalente della Torre di Pisa sul piano sociale.
Lo Stato riconosce ufficialmente cinque religioni abramitiche (cristianesimo, ebraismo, Islam) -e i drusi e la fede Bahá’í, l’opinione pubblica mondiale ne riconosce due o tre (sionismo religioso, ortodossia). Osservando la mappa con riguardo alla collocazione politico-religiosa in Israele vi sono due altri gruppi, i “sionisti religiosi” (datì leumì), il grosso dei “coloni”, cioè degli abitanti dei villaggi e delle città oltre la linea verde, e gli “haredim”. La mappa dell’appartenenza religiosa ebraica si compone di tre grandi correnti: i “reform”, più modernisti di tutti, i “conservative” che cercano di far convivere le regole antiche della religione con la modernità, e gli ortodossi, che rispettano le regole bibliche e del Talmud, tutte le decisioni e i costumi adottati nel corso dei secoli elencati in codici di comportamento religioso come lo “Shulkan arukh”. Dalla grande corrente degli haredim, nasce una costola, i cosiddetti hardalim cioè gli haredim nazionalisti. Il Paese che ha un ruolo geopolitico ben più rilevante del pianeta, oggi al centro della storia, si regge sulla diversità, la sua democrazia si misura con le credenze religiose, forti secolari ed antagonistiche. I partiti sono “chiese”, i loro programmi precetti religiosi.
Ciò che sappiamo forse può aiutarci a capire il desiderio di immortalità sotteso alla pratica di inseminazione postuma, eticamente controversa, nel Paese delle religioni, ma non può aiutarci a confidare in una volontà di conciliazione dei conflitti in corso. Il governo Netanyahu si regge sulla componente religiosa e messianica, che impone l’agenda politica, tradotta da Donald Trump nella deportazione dei palestinesi altrove.








