Non è una trattativa, è un match. Due suprematisti, due pugili senza guantoni, due potenze in carne e ossa, pronte a spartirsi ciò che resta del vecchio ordine globale. Facce di una stessa minaccia: l’autoritarismo mascherato da potere carismatico. L’uno, il palazzinaro americano, show man, imprudente, incline alla brutalità comunicativa e alla nostalgia per un’America grande, purché serva a se stesso. L’espressione del populismo spettacolarizzato, quello che trasforma il linguaggio politico in slogan da stadio.I l secondo, ex agente del KGB, lo spione russo, gelido, paziente, invisibile quando serve, letale quando decide che è il momento, è la continuità dell’autoritarismo sovietico adattato al XXI secolo, silenzioso, calcolatore, impermeabile ai valori liberali. Donald Trump e Vladimir Putin non sono solo due leader; sono due archetipi della degenerazione del potere contemporaneo.
in realtà un confronto di potenza, e si svolge sul campo di una guerra vera — quella in Ucraina, dove si combatte e si muore — e su un tavolo globale dove si gioca la ridefinizione degli equilibri post-occidentali. Ancor prima che si giocasse il match uno dei due contendenti, Putin, ha ricevuto preziose concessioni: l’umiliazione pubblica del nemico (Zdelesky alla Casa Bianca), una legittimazione internazionale alla invasione di una nazione libera, e la marginalizzazione dell’Europa, alleata dell’Ucraina. Ha flirtato con Putin, definendolo un amico e in passato “un uomo molto rispettato” (Helsinki, 2018). Ha attaccato la NATO, minacciando più volte il ritiro degli Stati Uniti. Per l’Ucraina, ha agito da ricattatore: nel 2019 quando cercò di ottenere da Zelensky informazioni su Biden in cambio di aiuti militari (che il Congresso aveva già approvato) finendo sotto impeachment.
Il primo round, dunque se l’è aggiudicato Putin, ancor prima di scendere nel ring.
Putin ha costruito la sua carriera politica sulla gestione delle ambiguità. Ha riscritto il manuale della guerra ibrida: disinformazione, cyber-attacchi, destabilizzazione delle democrazie occidentali (si veda il rapporto del Senato USA del 2019 sull’interferenza russa nelle elezioni del 2016). Ha represso il dissenso interno con una scientificità chirurgica: Navalny, Litvinenko, Politkovskaja: nomi che non hanno bisogno di aggettivi. Sul piano internazionale, ha recuperato la logica delle sfere d’influenza. L’annessione della Crimea nel 2014 ha rappresentato il ritorno alla forza come strumento di politica estera. In Siria, ha sostenuto Assad con bombardamenti che Amnesty International ha definito “crimini di guerra”. È l’arte del potere senza morale. Avaloriale, calcolatore, letale.
Trump non è strategico, è istintivo. Ma l’istinto, applicato con il potere illimitato, ha asunto un valore strategico: onfonde, destruttura, irride gli. avvertsari, crea l’aura del dominatore incontrastabile. Ha sdoganato il linguaggio dell’odio nella politica mainstream, ha promosso teorie del complotto, ha screditato la stampa e le istituzioni. Il 6 gennaio 2021 resta un punto di non ritorno: un ex presidente che incita un assalto al Congresso degli Stati Uniti. Mai successo prima.
Putin e Trump sono maschere di una stessa crisi: quella della democrazia rappresentativa. Ambigui, egocentrici, violenti nei modi e nei fini. Il primo è l’autoritarismo “soft” che si fa duro quando serve; il secondo è l’antipolitica che gioca con la distruzione delle regole come strumento di potere. Entrambi sono pericolosi. Non solo per l’Ucraina, ma per l’intero assetto liberale del mondo.
Chi vince?
Tre scenari, uno più inquietante dell’altro. Vince Trump: il caos travolge la diplomazia, l’Europa resta sola, l’Ucraina viene scambiata come merce tra potenze. Vince Putin: il mondo si scopre più fragile, la guerra ibrida si fa sistema, l’Occidente arranca, impaurito. Pari: si spartiscono l’instabilità, continuano a giocare con i confini e le verità, mentre l’Europa osserva, incapace di reagire, sperando che la prossima mossa non sia sul suo scacchiere.
Putin ha un’arma che Trump non ha mai posseduto: il controllo totale. Del linguaggio, del tempo, dei silenzi. Astuto, avaloriale, imperturbabile. Dove Trump urla e mostra, Putin tace e agisce. L’uno è maschera, l’altro è mimetismo. Ma entrambi giocano con il fuoco delle istituzioni libere. Due figure ambigue, specchi deformanti di un’epoca in cui la democrazia è debole, svuotata, sotto assedio.
- Tre scenari, nessuno rassicurante
- Vince Putin: con Trump di nuovo alla Casa Bianca, la NATO si indebolisce, forse si sfalda. L’Europa viene lasciata sola, e l’Ucraina diventa pedina di scambio. Putin consolida l’asse Mosca-Pechino, guadagna spazio in Africa e Medio Oriente.
- Vince Trump: più caos che vittoria. Il sistema multilaterale implode, si torna alla logica bilaterale, del “do ut des” tra grandi potenze. Le democrazie liberali perdono il riferimento americano. L’Europa resta in attesa, disarmata politicamente e culturalmente.
- Pari: si spartiscono instabilità e influenze. Putin consolida l’Est, Trump destabilizza l’Ovest. Il risultato è un mondo più cinico, in cui la forza e la propaganda contano più della diplomazia e del diritto.
L’Europa assiste. Fragile, divisa, priva di una vera politica estera comune, indebolita da filorussi e filo trumpiani (Italia sta in questo novero). Macron parla di “autonomia strategica”, Scholz preferisce la prudenza. L’Est chiede armi, l’Ovest media. Bruxelles resta il simbolo della paralisi burocratica. L’unico vero scudo europeo — la NATO — dipende ancora dagli Stati Uniti. E se quegli Stati Uniti li guida Trump, l’ombrello può chiudersi di colpo.







