Nella lunga e complessa storia della Chiesa cattolica, il termine papa di transizione è stato spesso adoperato con un’accezione contingente, quasi tecnica, per indicare quei pontefici eletti in età avanzata o in momenti di incertezza, con l’implicita aspettativa di un pontificato breve, di consolidamento o addirittura interlocutorio rispetto a figure di maggior respiro. Tuttavia, la storiografia dimostra come tale etichetta si sia frequentemente rivelata illusoria: molte di queste figure, apparentemente marginali, hanno saputo imprimere svolte decisive all’istituzione ecclesiale, contribuendo a ridefinirne le traiettorie teologiche, pastorali e politiche.
Papa Francesco stesso, eletto nel 2013 all’età di 76 anni, fu inizialmente percepito da molti osservatori come un papa di transizione. Dopo la storica rinuncia di Benedetto XVI, si riteneva che la scelta di Jorge Mario Bergoglio rispondesse alla necessità di una figura ponte, capace di traghettare la Chiesa verso una nuova stabilità, senza imprimere cambiamenti radicali. Eppure, il suo pontificato si è distinto per un’agenda riformista senza precedenti nella storia recente: una ristrutturazione profonda della Curia romana, una visione pastorale incentrata sulla misericordia e sull’inclusione, una rinnovata attenzione alle periferie del mondo e al dialogo interreligioso. La stessa canonizzazione di Giovanni XXIII accanto a Giovanni Paolo II, nel 2014, ha assunto il valore simbolico di una restaurazione del ruolo profetico e pastorale anche dei papi considerati inizialmente minori.
Angelo Giuseppe Roncalli, eletto nel 1958 a 77 anni, venne percepito come un custode temporaneo, chiamato a mantenere l’equilibrio dopo il lungo e severo pontificato di Pio XII. Tuttavia, fu proprio Giovanni XXIII ad avviare una delle più profonde trasformazioni della Chiesa moderna: la convocazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, evento che riformulò in modo radicale il rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo. Le sue riforme liturgiche, l’apertura ecumenica e le sue encicliche sociali — Mater et Magistra (1961) e Pacem in Terris (1963) — segnarono un punto di non ritorno nel magistero cattolico. La brevità del pontificato non ne ridusse l’impatto: anzi, come scrisse lo storico Giuseppe Alberigo, fu proprio l’apparente marginalità di Roncalli a consentirgli un’autonomia d’azione inattesa.
Anche Joseph Ratzinger, divenuto papa nel 2005 all’età di 78 anni, fu accolto da molti come una figura di transizione dopo l’epopea ventennale di Giovanni Paolo II. Teologo raffinato, custode della tradizione dottrinale, Benedetto XVI assunse però un ruolo tutt’altro che secondario nella Chiesa contemporanea. A lui si deve un approccio più rigoroso alla crisi degli abusi, l’adozione di criteri più trasparenti nella gestione dei casi e la riaffermazione del primato della carità nella teologia morale. La sua rinuncia, avvenuta nel 2013, rappresentò un gesto epocale che ridefinì il papato non più come un munus ineluttabile fino alla morte, ma come un servizio revocabile, soggetto alla storia e alla coscienza individuale.
Il pontificato di Albino Luciani durò solo 33 giorni, tra agosto e settembre del 1978, e fu dunque inequivocabilmente transitorio nel senso letterale. Tuttavia, la sua figura — segnata da un linguaggio pastorale disarmante, un sorriso accogliente e un approccio umile — ha esercitato un’influenza culturale profonda. Giovanni Paolo II, suo diretto successore, ne mutuò il nome in segno di continuità spirituale, e diversi commentatori vi hanno ravvisato una transizione nel tono della Chiesa, più che nella sua dottrina.
L’idea di papa transitorio può essere applicata anche in senso storico-critico a figure come Martino V (1417-1431), eletto dal Concilio di Costanza per porre fine allo Scisma d’Occidente. Dopo decenni di frammentazione e di papi rivali, Martino V si ritrovò a gestire non solo la restaurazione dell’unità ecclesiale, ma anche la riconfigurazione del papato in un’epoca profondamente mutata, in cui le spinte conciliariste minacciavano il primato romano. La sua azione politica, che incluse il rientro della sede pontificia a Roma e un’opera di riqualificazione urbana e amministrativa, fu decisiva nel gettare le basi per il Rinascimento ecclesiale.
La categoria di transizione, nell’ambito della storia pontificia, si rivela allora più fluida e ambigua di quanto non appaia a una prima lettura. Essa non designa soltanto una condizione temporale o biologica — l’età avanzata, la brevità del mandato, la necessità di stabilizzazione — ma può trasformarsi in un luogo di apertura, un’intercapedine fertile tra due epoche, tra due modelli ecclesiologici. I papi di transizione sono spesso stati proprio coloro che, non essendo attesi come innovatori, hanno potuto agire con maggiore libertà, sottraendosi al peso delle aspettative storiche.
La lezione che emerge da queste figure è chiara: nella storia della Chiesa, la provvisorietà può divenire profezia. I papi di transizione, più che semplici custodi del passato, sono stati spesso artefici del futuro. E proprio perché percepiti come interim, hanno potuto essere invece interventi, risposte provvidenziali a contesti di crisi, figure capaci di reinterpretare l’eterno nel tempo.








