In un’Italia apparentemente assuefatta all’emergenza permanente, la consultazione referendaria in programma si consuma in un silenzio assordante, quasi fosse un’incombenza burocratica piuttosto che un’espressione alta di democrazia diretta. L’indifferenza che la circonda non dipende, come spesso si tende a sostenere, dalla complessità o dalla marginalità dei quesiti — che anzi toccano nervi vitali della vita civile, come il diritto al lavoro e la cittadinanza — ma da qualcosa di ben più profondo: il rapporto ormai spezzato tra cittadini e politica.
La politica non è più, come accadde nei decenni immediatamente successivi alla nascita della Repubblica, la “passione triste” capace di investire intere esistenze, di plasmare identità collettive e di animare l’immaginario. Si è trasformata in un apparato opaco, distante, percepito come irriformabile e spesso ostile. La sua crisi non è contingente, semmai aggravata da un polarizzazione di varia origine, né limitata a una parte dello schieramento: investe tutte le aree ideologiche, colpendo al cuore il principio stesso della rappresentanza.
In tale scenario si inserisce una strategia che non si può non definire cinica, orchestrata da segmenti autorevoli dell’esecutivo e da alte cariche istituzionali, come la Presidenza del Senato, che hanno esplicitamente invitato all’astensione. Non per disinteresse, ma per calcolo. Disertare le urne diventa una forma di militanza rovesciata: un’adesione alla linea del governo per impedire che quesiti potenzialmente vincitori — sul piano dell’approvazione popolare — raggiungano il quorum e producano effetti normativi. Gli “astensionisti obbedienti” si alleano così, tacitamente, con gli “astensionisti disillusi”, svuotando il referendum del suo potenziale trasformativo. Il paradosso si compie: una maggioranza silenziosa può neutralizzare una maggioranza attiva, senza dover sostenere pubblicamente una posizione impopolare.
C’è poi un ulteriore elemento, che merita attenzione. Mentre si depotenzia lo strumento referendario, il governo procede spedito sul fronte legislativo, in particolare con l’adozione di misure ad alto tasso simbolico e identitario, come il nuovo decreto sicurezza. Espedienti messi in campo di volta in volta, diversivi utili a monopolizzare la comunicazione. . Si tratta di provvedimenti che lasciano ai margini il Parlamento, lo narcotizzano con la richiesta del voto di fiducia, evocando nei contenuti una visione autoritaria dell’ordine pubblico, scatenando prevedibili proteste di piazza, significativamente partecipate da giovani, proprio la fascia generazionale che rimane estranea al dibattito referendario.
Questa divaricazione merita una riflessione seria. È come se la piazza, non solo la politica dei partiti, e l’urna rappresentassero oggi due mondi che non comunicano. I giovani si mobilitano contro le leggi repressive, ma non riconoscono nei contenuti del referendum uno strumento utile o credibile per intervenire. L’iniziativa popolare appare loro troppo lenta, ingessata, vulnerabile a trappole procedurali — e, forse, già persa in partenza.
Il vero fallimento, dunque, non è il disinteresse per i quesiti, ma l’esaurimento della fiducia in una democrazia partecipativa che non riesce più a farsi rispettare, né a coinvolgere. Non è solo il quorum a essere a rischio, ma il principio stesso che in una repubblica le decisioni collettive possano scaturire da un confronto libero, paritario, consapevole, nelle aule parlamentari, nei luoghi ormai rari del dibattito (i partiti).
In questo vuoto, il governo trova vantaggioso mantenere la posizione dominante non più attraverso il consenso attivo, ma con l’inerzia nelle occasioni istituzionali di partecipazione democratica, i referendum dove si vota per qualcosa e non per qualcuno. La rinuncia alla partecipazione diventa la chiave per sterilizzare il dissenso, addomesticare la protesta, e produrre un’egemonia non dichiarata ma efficace.
E mentre il diritto al lavoro e quello alla cittadinanza vengono rimossi dal campo delle urgenze pubbliche, trasformati in plebisciti negati, resta un interrogativo che pesa sul futuro: può una democrazia sopravvivere al proprio svuotamento rituale?
Il voto alle amministrative di Genova che ha registrato il successo dell’opposizione di sinistra, si segnala per un balzo in avanti della partecipazione con un più 8 per cento (6 votanti giovani su 10), che inverte la tendenza e lascia un varco alla speranza.
 
			 
			







