Mentre l’offensiva militare israeliana su Gaza solleva indignazione globale e condanne da organismi internazionali come la Corte di Giustizia Internazionale, il governo italiano continua a giustificare il proprio rifiuto di sospendere la cooperazione con Israele in nome della “necessità di non isolarlo” e del dovere di “non privare la popolazione israeliana di risorse”. Tuttavia, dietro questa posizione si nasconde un intreccio economico-militare che raramente trova spazio nel dibattito pubblico e ancor meno nei resoconti parlamentari. Un reportage firmato da Lara Tomasetta su TPI (27.6.25) offre informazioni e elementi di rilievo per avere una conoscenza utile sul torbido traffico internazionale e nazionale delle armi.
Un memorandum d’intesa militare fra Italia e Israele è in vigore dal 2005, tacitamente rinnovato ogni cinque anni. L’ultima possibilità per interromperne il rinnovo automatico è passata lo scorso 8 giugno 2025, senza che il governo italiano intervenisse. Questo accordo consente lo scambio di tecnologie, brevetti, software e informazioni classificate, ed è coperto da segreto militare. Proprio sotto questa copertura si sviluppano relazioni industriali multimilionarie, in parte riconducibili anche ai sistemi d’arma oggi utilizzati da Israele nella Striscia di Gaza.
Uno dei casi più emblematici riguarda il drone Hero-30, prodotto dall’azienda israeliana UVision, importato, assemblato e mantenuto in Italia. Il programma, dal valore iniziale stimato di 3,9 milioni di euro, è stato classificato come “contratto secretato” e affidato alla RWM Italia, filiale della tedesca Rheinmetall, con sede a Ghedi (Brescia). RWM Italia è anche l’azienda che ha ottenuto l’appalto europeo per la fornitura dei droni Hero-30, diventando prime contractor per il mercato UE. Nell’autunno del 2023, il governo Meloni ha autorizzato l’esportazione di 160 esemplari di Hero-30 all’Ungheria di Viktor Orbán, per un valore di quasi 150 milioni di euro.
Nonostante il ministro degli Esteri Tajani abbia annunciato nel 2024 il blocco delle nuove autorizzazioni all’export verso Israele in virtù della legge 185/1990, i contratti firmati prima del 7 ottobre 2023 sono stati comunque onorati. La conferma è arrivata direttamente dal sottosegretario Giorgio Silli in Commissione Esteri: armi italiane sono state spedite a Israele anche dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza. Secondo il governo, tuttavia, queste spedizioni sono state valutate “caso per caso” e riguardano “materiali non utilizzabili contro la popolazione civile”. Un’affermazione difficile da verificare, considerando la natura secretata di molti contratti.
Nel frattempo, l’export militare italiano verso Israele continua a essere significativo. Secondo dati Istat e analisi di Weapon Watch, nel 2024 il 21% del valore complessivo delle importazioni militari italiane ha riguardato Israele, collocandolo al secondo posto dopo gli Stati Uniti. Tra le aziende coinvolte figurano Leonardo, Elettronica, Telespazio, KNDS-Simmel Difesa, Gelco, RWM Italia e l’operatore logistico SLS, tutte realtà integrate nell’industria della difesa italiana e, in molti casi, partecipate dallo Stato.
In parallelo, cresce anche la dipendenza dell’Italia dalle forniture israeliane, non solo in termini di armi ma anche di tecnologie dual use, sorveglianza e sistemi informativi. Israele, come ha ricordato il giornalista Alberto Negri, è il 97° Paese al mondo per popolazione, ma il 9° per export militare. Gaza e la Palestina sono diventate il laboratorio dove vengono testati, adattati e perfezionati strumenti tecnologici e tattici poi commercializzati a livello globale.
Di fronte a queste dinamiche, l’azione del governo italiano appare in contraddizione non solo con le posizioni di principio espresse in ambito internazionale, ma anche con la Costituzione stessa. Gli articoli 10, 11 e 117 stabiliscono l’obbligo per l’Italia di conformarsi al diritto internazionale e di promuovere la pace. Eppure, nonostante la mozione di sospensione della cooperazione militare con Israele presentata dalle opposizioni il 21 maggio 2024, nessuna misura sostanziale è stata presa.
Le giustificazioni addotte dall’esecutivo – precauzioni umanitarie, valutazioni caso per caso, rispetto delle licenze preesistenti – si rivelano dunque parziali e, soprattutto, funzionali a non incrinare un asse strategico consolidato. Un asse che ha radici profonde nell’economia di guerra, nelle esigenze del complesso militare-industriale e nella geopolitica atlantica.
L’Italia si presenta come interlocutore responsabile e moderato nella crisi mediorientale, ma nei fatti mantiene attivi canali di cooperazione militare con uno Stato accusato di crimini di guerra. In Parlamento, nelle dichiarazioni ufficiali e nelle conferenze stampa, il governo ripete che l’Italia non fornisce “armi per colpire civili”. Ma la documentazione, i bandi, le commesse, i flussi commerciali e le dichiarazioni internazionali sembrano raccontare un’altra storia: quella di un Paese che, tacendo, continua a rifornire una macchina bellica, mentre condanna con grande riluttanza le sue conseguenze.
(Nell’elaborazione del testo, in relazione alla ricerca di informazioni, mi sono avvalso del supporto di AI)
 
			 
			







