Nel cortile dell’Alleanza Atlantica, non tutte le piante crescono nello stesso modo. Alcune si piegano docilmente al giardiniere, altre mantengono una certa torsione autonoma, perfino ostinata. È il caso dell’Italia e della Spagna, due Paesi che, pur condividendo una lunga storia di subordinazione all’ordine atlantico, oggi si muovono in direzioni opposte: l’una allineata, l’altra recalcitrante. Il contrasto è tanto più evidente quanto più lo si osserva alla luce della nuova configurazione della NATO, ridefinita dall’impronta muscolare di Donald Trump, che ha trasformato l’Alleanza da meccanismo difensivo a piattaforma offensiva per un mondo bipolare, dove il nemico designato è la Cina e, per riflesso, ogni forma di autonomia europea. La domanda allora è: perché l’Italia obbedisce e la Spagna disobbedisce? La risposta è la diversità politica del governo, socialista in Spagna, di destra in Italia?
La nostra postura internazionale è il prodotto di una lunga pedagogia dell’obbedienza. La guerra fredda ci ha insegnato che si può essere periferia dell’Impero e, al contempo, epicentro della sua ossessione. L’Italia fu per decenni l’anello debole da blindare: troppo a sinistra sul piano elettorale, troppo esposta sul piano geografico, troppo permeabile sul piano ideologico. Il PCI, le lotte operaie, la forza culturale dell’antifascismo… Tutto questo richiedeva contromisure, spesso oscure: dalla strategia della tensione a Gladio, fino all’uso sistemico della pressione economica e della cooptazione politica. Da allora, il legame con Washington si è trasformato da necessità in dogma. Il nazionalismo/sovranismo dell’attuale governo italiano avrebbe dovuto alzare un argine all’obbedienza, invece l’ha coltivata e fatta crescere.
Questa forma di “fedeltà ansiosa” ha attraversato la Prima e la Seconda Repubblica. Oggi, nonostante un linguaggio “sovranista”, il governo Meloni si attesta sulla linea di continuità (“senza se e senza ma”): sostegno pieno alla NATO, aumento delle spese militari, adesione al paradigma del “nemico orientale”, disimpegno critico da ogni ipotesi di multipolarismo. Il paradosso si fa plateale: mentre Trump prepara il terreno per il disimpegno statunitense dall’Europa, costringendola ad armarsi “da sola” contro minacce che egli stesso relativizza (la Russia di Putin è più partner che avversario), l’Italia obbedisce. Taglia la spesa sociale, riduce i margini della sua politica estera, rinuncia a ogni ruolo autonomo nel Mediterraneo pur di rispettare il dogma del 5% in più alla Difesa.
È una “obbedienza esponenziale”: al dettato strategico della NATO, e alla nuova gerarchia interna dell’Alleanza, ridisegnata dalla destra americana e dal suo disegno post-democratico. La presenza italiana nei vertici NATO assume i tratti del vassallaggio: nessun margine di parola, nessuna iniziativa autonoma, se non quella di compiacere. Eppure la storia potrebbe essere diversa. La Spagna di Pedro Sánchez lo dimostra. Pur inserita a pieno titolo nel sistema atlantico — basi americane a Rota e Morón, adesione all’intervento in Iraq nel 2003, cooperazione economica profonda — il governo spagnolo ha mantenuto margini di manovra sorprendenti. Non ha aderito senza riserve al riarmo imposto da Washington, ha manifestato pubblicamente posizioni divergenti sul conflitto israelo-palestinese, ha mantenuto relazioni aperte con paesi “non allineati” come il Venezuela e persino con la Cina, proponendosi come ponte tra Pechino e Bruxelles. Non si tratta di romanticismo o improvvisazione, né di uno strappo antieuropeo, ma di una consapevole strategia geopolitica.
La chiave è duplice. Da un lato, la Spagna ha conservato una tradizione culturale e politica in cui l’anti-imperialismo non è un tabù, neanche nei partiti moderati. L’antifascismo spagnolo — a differenza di quello italiano — non ha potuto appoggiarsi agli Stati Uniti durante il franchismo: l’impero americano fu, per decenni, complice del regime. Questo ha lasciato sedimentare un sentimento antiamericano che oggi si traduce in prudenza strategica. Né Podemos né Sumar sono fenomeni “marginali”: sono state componenti organiche del governo e hanno spostato a sinistra il baricentro della coalizione. Il PSOE stesso, pur non rompendo formalmente con l’atlantismo, ha costruito uno spazio di ambiguità operativa che gli consente di disobbedire senza subire l’implosione.
Dall’altro lato, la Spagna ha un’agenda propria in America Latina, continente in cui detiene interessi economici e culturali primari, in competizione diretta con gli Stati Uniti. È il maggiore investitore europeo in Sud America e partecipa a numerose piattaforme regionali, anche antagoniste all’asse USA-NATO. Questo la obbliga a una postura ambivalente, perfino contraddittoria, che però si rivela utile nel gioco multipolare. Di qui la definizione della Spagna come “la Turchia dell’Occidente”: un alleato sì, ma con i propri conti, le proprie zone grigie, le proprie fughe laterali.
In questo quadro, l’Italia appare come un caso patologico di subordinazione. Il nostro establishment non solo non contesta le derive della NATO, ma le giustifica e le anticipa. La stessa Meloni, che si era presentata come espressione di un nazionalismo identitario, non ha esitato a inchinarsi a Trump, persino quando il tycoon minaccia apertamente l’autonomia europea e blandisce Putin. Il cortocircuito è evidente: ci stiamo armando, spendendo miliardi, per combattere un nemico (la Russia) che è in realtà l’alleato strategico dell’uomo forte che guida il nostro campo.
L’Occidente trumpiano non è più quello della Guerra Fredda. È un insieme slabbrato, polarizzato, attraversato da pulsioni autoritarie e strategie divergenti. In questo nuovo mondo, chi continua a obbedire è il più sottomesso. E, alla lunga, il più sacrificabile.







