Nei prossimi mesi sette regioni italiane torneranno al voto. Il vogo regionale è stato per mezzo secolo un voto di opinione, oggi è un voto di gestione. Nei due ultimi decenni, le elezioni regionali non hanno premiato tanto le oscillazioni dell’opinione pubblica quanto la continuità delle amministrazioni in carica. L’incumbency effect, ben documentato, pesa in maniera significativa: chi governa dispone di strumenti di visibilità e di una rete di relazioni e di gestione che difficilmente può essere validamente contrastata da candidati nuovi o opposizioni divise.
Le Regioni italiane gestiscono oltre un terzo della spesa pubblica nazionale. La voce più rilevante è la sanità: circa l’80% dei bilanci regionali è destinato a questo settore. Il “mercato della salute” rappresenta non solo una funzione essenziale per i cittadini, ma anche uno spazio di influenza politica e di clientelizzazione diffusa. A ciò si aggiungono le partecipazioni pubbliche e le società controllate, che muovono risorse significative e garantiscono posti di lavoro e di potere.
Alle ultime elezioni regionali l’affluenza si è spesso fermata attorno al 40–45%.
Un dato che segnala un malessere, in larga parte frutto di insoddisfazione per la gestione pubblica: l’astensione alta offre una rendita di posizione ai blocchi di potere consolidati: chi ha un radicamento organizzativo mobilita più facilmente il proprio elettorato. Il dato politico più rilevante sarà ancora una volta l’astensione. La sfiducia generalizzata può trasformarsi in sostegno a un’alternativa, ma si tratta di condizioni eccezionali più che di regola. Una forte perdita di credibilità che renda “indifendibile” l’immagine della maggioranza uscente può modificare l’inerzia a favore dei governi uscenti. La polarizzazione dei blocchi politici, centrodestra e centrosinistra, è un altro elemento rilevante, specie se, come pare, l’opposizione politica di centrosinistra manterrà il patto unitario appena raggiunto.