(Salvatore Parlagreco) Se qualcuno è in palla, vuol dire che esprime il meglio di sé; se invece è nel pallone, vuol dire esattamente il contrario, che si è instupidito, non capisce più niente. La palla suscita un giudizio favorevole. il pallone un giudizio molto negativo. Il buonsenso, oltre che la qualità dell’oggetto, palla o pallone, ci indurrebbero a ritenere che questi modi di dire non hanno altra origine che la consuetudine, che si perde nella notte dei tempi, e che la convivenza fra le due espressioni sia nient’altro che uno dei casi, soltanto uno dei tanti, di convergenze parallele, che con rispetta né la logica né la geometria.
Ci si deve arrendere al paradosso? In qualche misura, conviene; c’è tuttavia uno spiraglio che ci aiuta a non darsi del tutto per vinti.
La questione, invero, non merita elucubrazioni, ma può essere posta in una area di confine fra il terreno di gioco, dove si fa a pallonate a beneficio dello spettacolo (calcistico) e i gradoni che ospitano gli umani che non assistono, com’è noto, impassibili ai percorsi della palla o pallone. Mentre sul terreno di gioco gli attori principali cercano di dare il meglio di sé a pallonate e per farlo usano sia i piedi che la testa, nelle gradinate degli stadi a prevalere è il pallone; sono loro a “andare in pallone” a causa delle pallonate ben sferrate o maldestramente date.
C’è una terza categoria, accanto ai giocatori e gli spettatori, coloro che amano godersi lo spettacolo calcistico cercando con esiti incerti di indovinare la tecné delle squadre in campo: tattica, strategia, astuzie ecc. Sono dislocati ovunque i “competenti”, sia ai margini del terreno di gioco che sulle gradinate e sulle poltrone di casa. A questa categoria sento di appartenere. La difficoltà di comprendere la evoluzione degli eventi, e la loro logica, nasce da una difficoltà basica: inseguo la sorte del pallone e, di conseguenza, di chi lo ha tra i piedi, magari provando a indovinare la sua destinazione con una frazione di secondo in anticipo.
La comprensione delle strategie richiede il campo largo, uno sguardo panoramico che conceda la visione della disposizione dei giocatori. Solo, sottoponendosi a questa regola, si hanno le carte in regola per capire ciò che succede sul terreno di gioco. Coloro che discettano sulla variabilità dei numeri – il 4,5, 1 o il 4,3,3 e così via – leggono la partita come se leggessero un libro. Ciò comporta la rinuncia ad inseguire la palla con gli occhi.
Si perdono lo spettacolo? Anzi, lo gusterebbero meglio, beati loro. Non ho le idee chiare; posso soltanto far notare, sommessamente, che la palla regala una percentuale di imprevedibilità così alta da far vacillare la priorità che i competenti attribuiscono alla torturante osservazione del campo largo. Il pallone è sregolato, possiede una imperscrutabile casualità, non rispetta niente: l’inerzia, il destino, l’intelligenza. Impenetrabile, distante, anaffettivo. Ama, tradisce, non ha memoria, solo storia. Non è poco. Perciò non mi sento in colpa, se amo il calcio e non lo capisco.
Ne scrivo a ragion veduta. La mia attività professionale ha richiesto anche che raccontassi le partite di calcio e che, perciò, dovessi scoprire strategie e tattiche dei trainer (allora si chiamavano così gli allenatori, coach ed equivalenti), una gran fatica.
Da quando vedo le partite di calcio per diletto e non per lavoro, preferibilmente in poltrona, gli occhi hanno ripreso ad inseguire la palla, senza timore, confidando nella competenza di chi racconta e commenta. Non mi passa per la testa di verificare una verifica delle sue informazioni sulla disposizione delle squadre in campo, perdendomi la palla. Mi sorprendo piuttosto, questo non posso tacerlo, della rapidità con la quale i commentatori annunciano cambi di strategia attraverso le variabili numeriche, che conservano quel tasso di misteriosità, cui non intendo rinunciare.








