I cuoricini trionfano anche fuori da Sanremo, ed il cattivismo impera:è la polarizzazione dei sentimenti. Non ci sono argini fra la politica politicante, che avvelena i pozzi (della scienza, della storia, del buonsenso, della tolleranza ecc) e le cose della vita, le più semplici e quelle complesse…trattate come fossero semplici.
C’è qualcosa di profondamente disturbante ea insieme rivelatore nella simultaneità con cui in Italia trionfano i cuoricini e si accoltellano le opinioni. In prima serata si piange per un abbraccio a Sanremo, si celebra il cuore come ultimo rifugio, come lingua franca dell’anima nazionale. Un attimo dopo, gli stessi che applaudono l’empatia mediatica si scatenano sui social con una ferocia che non risparmia nessuno.
È la schizofrenia del sentimento, la polarizzazione affettiva: o si ama o si odia, o sei con me o sei contro di me, o sei fragile e meritevole o odiabile e spregevole. Non esistono più le sfumature. E in questo schema binario, tutto diventa campo di battaglia: il condominio, la scuola, l’università, il talk show, la coda alle poste. Ogni luogo è un’arena, ogni confronto una guerra. Eppure, ci diciamo “pacifici”, “buoni”, “inclusivi”. I cuori battono, ma i denti sono serrati.
In questo clima, la politica – che dovrebbe contenere i conflitti, non alimentarli – è ormai indistinguibile dal litigio da bar. Avvelena i pozzi della convivenza civile: la scienza è derisa o manipolata, la storia riscritta a seconda dell’algoritmo, il buonsenso scambiato per codardia, la tolleranza per tradimento. Nessun filtro, nessun rispetto per la complessità.
Semplificare è il verbo dominante. Spiegare è diventato sospetto. Se ragioni, sei elitario. Se dubiti, sei vigliacco. Se non ti allinei, sei nemico.
E allora ci ritroviamo così: a condividere meme sdolcinati al mattino e minacce velate la sera. A dichiarare amore per la “gentilezza” e poi insultare chi ci smentisce. A commuoverci per un cantante “vero” e a sbranare un professore che osa correggere. La tenerezza è diventata intrattenimento, mentre il pensiero è diventato un fastidio.
Non è un caso se anche le “cose della vita”, le più concrete, vengono trattate come fossero banali. Il lavoro, la salute, la giustizia sociale: si liquidano con uno slogan, si impacchettano in un post, si usano per la propaganda. Così ci illudiamo di partecipare, ma in realtà ci consumiamo in un eterno sfogo che non costruisce niente. La comunità si è trasformata in un arcipelago di bolle impermeabili, dove si coltivano solo affetti selettivi e rancori infiniti.
Non è solo colpa dei politici, dei social o dei media. È colpa nostra. Abbiamo scelto la reazione al posto del ragionamento, l’indignazione come identità, il vittimismo come scudo. Non facciamo i conti con noi stessi, non ci interroghiamo, i dubbi sono “trattati” con fastidio, l’altro è un nemico potenziale, e vivere nella nicchia (la chat di coloro che la pensano come noi, o casa nostra), è preferibile fino a prova contraria. Prevalgono i processi sommari, i pregiudizi. Sappiamo poco? E’ questa la malattia?
Forse è tardi per tornare indietro, ma almeno possiamo smettere di fingere che basti un cuoricino per salvarci l’anima. La verità è che servirebbe più coraggio morale. Quello che non cerca consensi, che non si nasconde dietro l’ironia o la commozione facile.
E servirebbe anche una cultura che torni ad avere spessore. Non quella fatta di citazioni a effetto, ma di studio vero, di pensiero critico, di fatica intellettuale. Un’educazione alla complessità, all’ambiguità, alla responsabilità. Non è sexy. Non è virale. Ma è l’unica via d’uscita da questo eterno duello in cui sembriamo tutti impegnati a distruggerci con passione. Nel frattempo, continuiamo a combattere. Ma almeno, per onestà, smettiamo di farlo a forma di cuore.






