Marine Le Pen confeziona, promuove una legge molto severa sulla corruzione dei rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi perfino dell’abito garantista adottato dal Parlamento nella stesura finale, poi succede che viene applicata su di lei, a conclusione di una inchiesta durata ben undici anni sull’uso illegale di fondi europei, l’abiura, definendola una bomba nucleare, lanciata dal sistema ai danni di una candidata con grandi chances di vittoria alle presidenziali francesi. Una nemesi: la bomba che aveva fortemente voluto, ingraziandosi il consenso popolare per il suo rigore, le è scoppiata sotto i piedi, ed ora Marine vuole evitarne gli effetti; non solo, si mette alla testa di una protesta contro il regime, accusato di averle acceso la miccia e pianificato gli elementi del detonatore. Ricorda le storielle di quei ladri maldestri che tentano di scassinare la cassaforte con il petardo e questo gli scoppia in mano. Suscita un sorriso, se non fosse che la vicenda ha innescato un’altra miccia.
I giudici, intanto, diventano di fatto guardiani del sistema, e rubano al popolo il diritto di decidere su chi deve governare. E’ il comandamento sovranista, adottato anche in Italia, che pretende la fine della separazione dei potere, prodromica alla fine della democrazia.
Marine Le Pen ha scritto, promosso, osannato una legge anti-corruzione. Una di quelle severe, scolpite per fare giustizia esemplare dei privilegi istituzionali. Poi quella stessa legge è tornata indietro come un boomerang, ha seguito un percorso lungo undici anni, e infine l’ha colpita in pieno. La leader del Rassemblement National è stata rinviata a giudizio per appropriazione indebita di fondi pubblici europei. Il paradosso è chiaro: chi ha invocato la giustizia come clava oggi accusa quella stessa giustizia di complotto. La legge, da strumento di moralizzazione, si è trasformata – a suo dire – in un’arma atomica, “confezionata dal sistema” contro una candidata credibile all’Eliseo.
Il caso Le Pen ha il sapore aspro della nemesi. Ma è ben più di un evento giudiziario. È una faglia che squarcia il terreno della democrazia francese. Qui non si parla solo di una donna imputata. Si parla della torsione sovranista del diritto, della sua riscrittura simbolica: la giustizia non è più un potere autonomo, ma una maschera del potere avversario, uno strumento nelle mani di un “regime” immaginario. Le Pen, mentre si difende nelle aule, lancia un’accusa più grave fuori da esse: il sistema giudiziario non protegge la legge, ma nega al popolo il diritto di scegliere chi lo governa. È la rivendicazione di un primato popolare che pretende di sottomettere tutto – persino la legalità – alla volontà politica.
Questo è il cuore della frattura. La democrazia non è semplicemente “governo del popolo”. È governo del popolo dentro un quadro di regole, limiti, controlli. Senza la separazione dei poteri, non esiste democrazia, ma solo forza che si traveste da rappresentanza. Quando chi viene toccato dalla legge, ne nega la legittimità e arringa le folle contro i giudici, sta spostando l’asse della legittimità fuori dal diritto e dentro la piazza.
Così la protesta si fa performativa: non è solo reazione, è costruzione di un nuovo immaginario in cui i giudici sono usurpatori e chi è imputato è vittima di un colpo di Stato giudiziario. È un racconto tossico, ma efficace. Un racconto in cui la bomba sotto i piedi di Marine Le Pen diventa l’innesco per demolire la fragile architettura dello Stato di diritto.
La posta in gioco, quindi, non è solo la corsa all’Eliseo. È la tenuta della democrazia liberale, la sua capacità di resistere all’assalto di chi invoca la legge solo quando punisce gli altri, e la nega quando tocca sé stesso. L’idea che i giudici debbano farsi da parte perché “il popolo” ha già scelto il suo leader è un veleno. È l’inizio di un regime che non ha più bisogno di colpe, ma solo di consenso.
Il vero crinale oggi non è tra destra e sinistra, ma tra chi accetta il principio di legalità come fondamento comune, e chi lo relativizza alla convenienza del momento.
Chi governerà la Francia, in futuro, sarà deciso dagli elettori. Ma il destino della democrazia si gioca altrove: nella capacità di dire, con fermezza, che nessuno sta sopra la legge. Nemmeno chi pensa di essere già stato eletto dal popolo.
 
			 
			







