Nel giorno della memoria del D-Day, Donald Trump ha fatto quello che fa meglio: una battuta rozza, fuori registro, confezionata per i suoi devoti e pensata per umiliare gli interlocutori. “Un brutto giorno per i tedeschi”, ha ironizzato, evocando con cinismo lo sbarco in Normandia. Ma il cancelliere tedesco Friedrich Merz — di centrodestra, come Giorgia Meloni — non ha cercato l’applauso facile, né si è rifugiato nella compiacenza. Con sobrietà ha risposto: “Certo, non è stato piacevole, ma è stata la liberazione del mio Paese dalla dittatura nazista”. Una frase semplice, storicamente ineccepibile, ma politicamente significativa: Merz ha ricordato da dove viene la democrazia europea, e chi ha contribuito a renderla possibile.
Ha poi aggiunto, per due volte: “Dobbiamo molto agli americani. Non lo dimenticheremo mai”. Riconoscenza, ma non servilismo. Perché subito dopo ha rivendicato: “La Germania è dalla parte dell’Ucraina, e chiediamo una maggiore pressione sulla Russia”. Un’affermazione che — a dispetto dell’ospite — prende posizione sull’attualità, sfida apertamente l’ambiguità trumpiana, e riafferma la linea euro-atlantica senza diventare subalterna.
Circa un mese fa, Giorgia Meloni era alla Casa Bianca. L’incontro con Trump era stato organizzato con cura e, secondo molti, concepito come un tributo preventivo a chi potrebbe tornare alla guida degli Stati Uniti. Ma ciò che colpisce non è l’opportunismo della visita, quanto il silenzio della presidente del Consiglio. Non una parola sull’Ucraina. Nessuna menzione degli imbarazzanti ammiccamenti trumpiani a Putin. Nessuna risposta alla mozione votata dal team Trump al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in cui l’ex presidente — come la Russia — ha negato legittimità allo Stato ucraino. Meloni ha scelto di tacere, come ha già fatto più volte su altri fronti: dal collasso umanitario a Gaza alla colonizzazione illegale della Cisgiordania, passando per le forniture militari a Israele.
La differenza tra Merz e Meloni non è solo di stile, ma di sostanza. Il leader tedesco ha dimostrato che si può essere atlantisti senza diventare vassalli. Che la riconoscenza verso gli Stati Uniti non implica rinunciare alla propria voce. Meloni, invece, pratica una diplomazia remissiva, che confonde il realismo con la sudditanza. La sua politica estera è fatta di adesioni silenziose, parole calibrate sul gradimento degli alleati forti, e assenze strategiche su ogni dossier che implichi un dissenso.
Così si spiega il silenzio sulla Palestina, l’assenza di una vera iniziativa diplomatica sull’Ucraina, l’equidistanza apparente (ma solo apparente) tra aggressori e aggrediti. Non è prudenza, è un vuoto di autonomia. E non è solo una questione morale, ma geopolitica: l’Italia si comporta da alleato marginale, che non incide e non osa.
Trump è il prototipo del leader che impone fedeltà personale prima ancora che politica. Chi non si piega viene umiliato (Zelensky ne sa qualcosa). Chi invece si adatta, ottiene in cambio il diritto di rimanere nella foto. Giorgia Meloni, che pure si proclama patriota e sovranista, ha accettato le regole del gioco: meglio apparire sullo sfondo del potere che avanzare richieste scomode.
In un’Europa scossa da guerre alle porte, crisi democratiche e sfide economiche globali, l’Italia ha bisogno di leadership assertiva. Quella che dice “grazie” ma anche “no”. Che distingue la lealtà dall’obbedienza. Che ricorda — come ha fatto Merz — che le alleanze non sono patti di silenzio, ma relazioni fra eguali. Invece, nella Casa Bianca trumpiana, Giorgia Meloni ha scelto il ruolo dell’ospite servizievole. Con il sorriso, con il silenzio, con l’assenza.
 
			 
			







