C’è un film che sembra aver profetizzato, con quarant’anni di anticipo, l’America di Donald Trump. È Being There (Oltre il giardino), capolavoro del 1979 diretto da Hal Ashby e interpretato da Peter Sellers. La storia è quella di Chance, un giardiniere rimasto per tutta la vita chiuso nella villa del suo padrone, senza altra finestra sul mondo che lo schermo televisivo. Candido, privo di cultura, incapace di comprendere la complessità, Chance viene scambiato da un’élite politica e finanziaria per un saggio profondo, e finisce candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
La parabola si conclude con una frase rimasta nella memoria del cinema: “La vita è uno stato mentale”. Il destino politico dell’America appare affidato a un uomo che non pensa, ma che proprio per questo diventa il proiettore perfetto dei desideri e delle paure altrui. L’ultima sequenza del film ci mostra Chance che cammina sull’acqua, a rappresentare il Potere divino, che Trump ha interpretato con immagini e video come Pontefice di Roma.
Ironia della storia: ciò che nel 1979 era satira visionaria, nel 2016 è diventato realtà. Donald Trump, uomo plasmato dalla televisione, dal successo del reality The Apprentice, dall’arte della scena e dello slogan, ha incarnato il sogno rovesciato di Chance. Anche lui, come il giardiniere, ha “vissuto dentro lo schermo”, imparando a recitare la parte di sé stesso fino a trasformarla in potere politico. Donald Trump, come Chance, è una creatura della televisione: ha vissuto “dentro lo schermo” prima ancora che nella politica. Non sorprende allora che Sam Nunberg, suo consigliere, lo abbia definito «un idiota». Una definizione che non lo scredita, ma lo consacra. Perché in democrazia l’idiozia non è soltanto un difetto individuale: è uno strumento, un meccanismo collettivo che permette alle élite — un tempo banchieri, oggi padroni delle piattaforme digitali — di governare attraverso chi occupa la scena.
E come nel film, non sono mancati coloro che lo hanno voluto proprio perché “idiota”, come rivelò Sam Nunberg a Michael Wolff, consulente e raccio destro il primo, biografo il secondo: «Non capisci? È un idiota!». Non un limite, ma una risorsa. Perché un leader che appare impreparato, manipolabile, istintivo, diventa la pedina ideale per chi muove i fili alle sue spalle.
In Being There, è una lobby di banchieri a decidere di proiettare l’innocente Chance verso la Casa Bianca. Nel mondo reale, si potrebbe dire, sono state le élite delle grandi piattaforme tecnologiche, dei media digitali e dei flussi finanziari globali a trovare in Trump un candidato funzionale. La sua rozzezza, lungi dall’essere un ostacolo, ha reso possibile un rapporto diretto con le masse, filtrato però dalle architetture algoritmiche di Facebook, Twitter e YouTube.
La politica, in questo senso, non si è più giocata soltanto nelle aule parlamentari o nelle convention di partito, ma nel campo invisibile delle reti sociali. Un campo dove un messaggio semplice, urlato, ripetuto diventa più forte di qualsiasi analisi sofisticata.
Qui emerge l’ironia più tagliente. Da un lato, raffinati intellettuali, persi in sofismi, avevano preconizzato che il potere democratico, nel suo esasperato pluralismo, avrebbe finito per svuotarsi, aprendo la strada a leader “accidentali”, figure mediatiche capaci di incarnare le emozioni collettive più che i programmi politici. Dall’altro, pragmatici lobbisti e grandi centri di potere economico hanno intravisto l’opportunità: un presidente che non controlla il discorso, ma ne diventa l’icona, è perfetto per chi controlla la cornice — la finanza, i media, le piattaforme.
Vie diverse, stessa meta: eleggere un idiota a capo dello Stato più potente del mondo.
Che cosa ci dice, oggi, questo parallelo fra Chance e Trump? Che l’idiozia politica non è tanto una mancanza di intelligenza individuale, quanto un dispositivo collettivo. È il risultato di una scelta: meglio un presidente semplice, manovrabile, televisivo, che un leader consapevole e potenzialmente ingovernabile per gli interessi dominanti.
E forse Wolff, Nunberg e gli altri testimoni della saga trumpiana hanno ragione a metà: non importa se Trump fosse davvero un idiota. Importa che, come Chance, sia stato percepito come tale e che proprio questa percezione lo abbia reso utile. “La vita è uno stato mentale” — e la politica, oggi più che mai, anche.
(L’articolo è stato elaborato con il supporto dell’intelligenza artificiale per le ricerche)







