“Se il nostro Sud Italia diventerà una nazione a se’ e lavorerà coi suoi soldi sarà ricca come la Corea del Sud”. Gli inglesi la definirebbero bullshit, stupidaggine; dalle nostre parti innvece può contare su qualche credito e su una lunga resilienza grazie ad autorevoli assertori, come lo scrittore Pino Aprile, e su una corrente sicilianista, interessata a tenersi il consenso elettorale guadagnnandosi il ticket d’ingresso nelle assemblee elettive. L’unificazione piemontese, dal canto suo, ha compiuto soverchierie ed errori grossolani, regalando argomenti ai sostenitori del Regno delle Due Sicilie, terra felice grazie ai Borboni, sicché il credito immeritato resta in piedi e fa sospirare qualche nostalgico. Ma come stanno le cose? Proviamo a stabilire alcuni punti fermi.
Il dibattito sull’effettiva condizione del Mezzogiorno sotto la dinastia borbonica e sul futuro di un ipotetico Sud Italia indipendente ha assunto connotazioni ideologiche complesse, spesso prive di un ancoraggio solido ai dati storici. L’affermazione che il Sud Italia, in qualità di Stato autonomo, potrebbe raggiungere livelli di prosperità simili alla Corea del Sud, è una tesi intrinsecamente problematica, sia per la mancanza di parallelismi socio-economici validi, sia per una certa idealizzazione del passato borbonico. Prima di trarre conclusioni su questa visione del Sud, è essenziale esaminare i fatti storici e contestualizzarli nel quadro più ampio dell’Europa del XIX secolo.
Il Regno delle Due Sicilie, sotto la guida dei Borbone, era il più vasto e popoloso degli Stati preunitari italiani. La sua capitale, Napoli, era una delle città più grandi d’Europa, famosa per il suo patrimonio culturale e per un certo grado di modernità. Tuttavia, l’analisi economica e sociale del regno dipinge un quadro più complesso. Nel campo dell’industria, sebbene esistessero alcune eccellenze (come i cantieri navali di Castellammare di Stabia e il polo siderurgico di Pietrarsa), queste rappresentavano eccezioni in un contesto prevalentemente agricolo. La stragrande maggioranza della popolazione viveva in condizioni di povertà, con un’economia dominata dal latifondo e una produttività agricola fortemente arretrata.
Nonostante qualche timido tentativo di modernizzazione da parte di sovrani come Ferdinando II, la lentezza delle riforme e la resistenza dei grandi proprietari terrieri costituivano un freno allo sviluppo economico. La questione dell’analfabetismo è emblematica: al momento dell’unificazione italiana, la percentuale di analfabeti nel Mezzogiorno era particolarmente alta, superando il 90% in alcune aree rurali. L’assenza di un sistema educativo capillare e l’indifferenza della classe dirigente verso l’istruzione delle masse contribuivano a perpetuare una società rigidamente stratificata.
È indubbio che l’annessione del Mezzogiorno al Regno d’Italia non sia stata priva di errori e soverchierie. Il cosiddetto “brigantaggio postunitario”, per esempio, fu in parte una reazione a politiche centralizzatrici che alienarono ampie fasce della popolazione contadina. Tuttavia, l’immagine di un Sud fiorente prima del 1861 non regge a un’analisi storica oggettiva. Le cronache coeve, come quelle degli inviati stranieri, descrivevano una società fortemente diseguale, in cui il potere era concentrato nelle mani di poche famiglie aristocratiche e latifondiste.
La narrativa di un Sud oppresso dall’invasore piemontese trascura il fatto che lo Stato borbonico stesso soffriva di corruzione interna, inefficienza amministrativa e una gestione finanziaria problematica. La censura era severa e le libertà individuali limitate. Ad esempio, la gestione delle finanze pubbliche si basava in gran parte su una politica fiscale regressiva, che gravava maggiormente sulle classi meno abbienti. Di fronte alla crescente pressione rivoluzionaria in Europa, il governo borbonico adottò misure sempre più repressive, che alla fine contribuirono alla sua delegittimazione interna.
L’eredità del regno borbonico può essere valutata in due modi: da un lato, come un tentativo fallito di modernizzare un’area vasta e complessa; dall’altro, come un caso emblematico di resistenza al cambiamento in un’epoca di rapida trasformazione economica e sociale. La Corea del Sud, spesso citata come modello di successo economico, è frutto di una serie di condizioni storiche ed economiche uniche: massicci investimenti nell’educazione, una solida politica industriale e un’integrazione in reti commerciali globali. Il Regno delle Due Sicilie, al contrario, mancava delle infrastrutture, delle risorse umane e del tessuto imprenditoriale necessari per sostenere una crescita simile. Inoltre, il contesto internazionale della metà del XIX secolo era radicalmente diverso da quello del dopoguerra asiatico.
L’idea che un Sud indipendente possa replicare il “miracolo” coreano è dunque una boutade fuorviante. L’attuale arretratezza economica del Mezzogiorno affonda le sue radici in problemi strutturali che risalgono all’epoca borbonica e che l’unificazione non è riuscita a risolvere appieno. Tuttavia, la soluzione non risiede in un ritorno a un passato idealizzato, ma in un serio impegno a colmare le disuguaglianze socio-economiche e infrastrutturali, con investimenti mirati e riforme efficaci.
In definitiva, la retorica di un Sud felice e prospero sotto i Borbone si scontra con la realtà storica di un regno segnato da profonde disuguaglianze e da un’arretratezza strutturale che non avrebbe potuto sostenere lo sviluppo moderno senza riforme radicali. L’unificazione italiana, pur con tutte le sue contraddizioni e problematiche, ha rappresentato una finestra di opportunità per l’integrazione del Mezzogiorno nel progetto nazionale e, più tardi, europeo.
Il vero dibattito dovrebbe vertere piuttosto che su ipotesi nostalgiche di secessione, su come ridurre il divario Nord-Sud attraverso politiche di sviluppo che guardino al futuro, senza indulgere in mitologie storiche.
A chi serve il mito? Ai suoi fruitori, interessati alla sua permanenza. Finno a quando vive, potranno mantenere l’accesso alle stanze del potere.








