La rivolta contro la barbarie russa si è espressa in decine di comunicati, speriamo sinceri. Due voci non si sono ascoltate, quantomeno nelle prime ore seguite al massacro, quella di Conte e quella di Salvini. Si è creato sopra di ciò uno scandalo, non poteva che crearsi ed è più che sacrosanto che si sia creato. Con un però: tener chiuse quelle due cazzo di bocche per un momento, evitare una volta tanto di dover commentare le puttanate che ne sarebbero uscite senza colpo ferire e viversi l’inconsueto silenzio in santa pace, ma che meraviglia! E invece no, due scassaballe tacciono e il Paese si lamenta. (Andrea’s Version, Il Foglio, 15.4.25)
Sono entrambi amici di Putin? E di Trump? O così fanno credere? Il corsivo del Foglio è lo spunto per riflettere su Giuseppe Conte e Matteo Salvini, la strana coppia, che coppia non è, ma in alcune stagioni della vita politica come l’attuale lo diventa, magari senza volerlo. Non per amore, ma per interesse. Lavorano entrambi per destabilizzare gli equilibri delle rispettive coalizioni con l’obiettivo di riconquistare la centralità perduta. Potremmo dire che Matteo Salvini sta a Giorgia Meloni, come Giuseppe Conte sta a Elly Schlein.
Matteo Salvini ha esternato nel corso del congresso leghista, il più stralunato congresso della storia repubblicana, il suo antico desiderio di ritornare Ministro dell’Interno, il Capitano di una stagione che, grazie a Giuseppe Conte, lo vide dapprima condottiero di memorabili battaglie contro poveri disgraziati che scappavano da kapò libici e onde marine, e poi immolarsi da imputato nel processo di Palermo da cui sarebbe uscito vittorioso e creditore di giustizia nella veste di salvatore dei confini nazionali (chi se non Salvini avrebbe potuto rappresentare nel teatro di cartone italico le due parti in commedia, di secessionista padano prima e nazionalista estremo oggi). “Con serenità parlerò con lui (Piantedosi) e con Giorgia Meloni”, annuncia ai leghisti trepidanti di prima e seconda fila, infervorato da un’atmosfera congressuale che per otto anni era stata evitata come la peste bubbonica dopo il suicidio del Papete. La perorazione non è uscita dal congresso, resta la sua eco timida.
Anche Giuseppe Conte ha vissuto il suo congresso stralunato, digitale e molto grillino, conquistando come Salvini l’egemonia del movimento, trasformato in partito.
Contingenze e non affinità elettive o neuronali, tracciano percorsi comuni. Per studi e postura culturale, i due divergono. Conte è un giurista, o qualcosa di simile, e Salvini un geometra che ha lasciato il righello per servire la patria (padana prima, italiana dopo), restando un ragazzone perennemente inseguito da furori giovanili, cui tenta di porre riparo in età adulta vestendo i panni del padre di famiglia in modo compulsivo. Il suo populismo è nativo, a differenza di quello di Conte, acquisito in territorio grillino, dove è stato trascinato per uno degli strani incroci del destino, ai quali gli stellati ci hanno abituato senza incontrare resistenza. Una volta dentro, a Conte si sono spalancate le vie della provvidenza: esterno al Movimento, è diventato Presidente del Consiglio, nel governo gialloverde, trovandosi accanto al Capitano, reduce di una performance nelle urne. Poi le cose si sono complicate: il divorzio è stato rappresentato in un’aula parlamentare (jaccuse di Conte, silenzi e faccette di Salvini). Conclusa la rappresentazione, zero sconvenienze.
Oggi si ritrovano lontani geopoliticamente e vicini nei fatti. Pacifisti senza se e senza ma, inflessibili accusatori dell’Europa colpevole oltre ogni ragionevole dubbio su tutto (“E’ lì che bisogna usare la motosega di Milei, è lì il problema delle nostre imprese, i dazi di Trump potrebbero riservarci delle opportunità per le imprese italiane, chi ritiene che Trump sia un. nemico non capisce un accidente”, il verbo di Salvini. E Conte: “non possiamo dire più Europa, se l’Europa è la von Derlayen”. Entrambi ben disposti verso gli autocrati (Trump, Putin…), sostenitori del disarmo UE, apprezzato da Putin. “Armarsi è un errore…”, sostiene Conte. “Se si prende questa strada senza ritorno, la guerra arriva davvero…”. Armiamo piuttosto le nostre imprese per poterle difendere, avverte la Lega salviniana.
La vocazione alla pace, senza una idea della pace, è un collante solido ma appare anche una sorta di comparaggio coperto da un nobile sentimento. In un contesto di guerra, il problema è far accettare la pace ai contendenti. E come, se non ponendo limiti e rinunce ad entrambe le parti, salvaguardando il diritto all’indipendenza ed alla libertà del Paese aggredito? Avere un’idea di pace, dunque, scardinerebbe la coppia, ma costringerebbe ad assumersi la responsabilità di indicare una via alla pace.
Utili idioti senza averne coscienza? No, Conte e Salvini sanno quel che dicono e non dicono; i silenzi, le omissioni, i diversivi, al pari delle denunce, delle critiche disegnano un terreno di azione comune, disegnano convergenze e scelte. E’ l’anomalia italiana, forse una battaglia decisiva per la strana coppia, nemica del bipolarismo nazionale.
 
			 
			







