C’è una lunga linea rossa, fatta di illusioni, sottovalutazioni e incomprensioni strategiche, che lega i presidenti degli Stati Uniti succedutisi dagli anni Novanta fino a oggi a Vladimir Putin, l’ex tenente colonnello del KGB trasformatosi nel demiurgo implacabile della rinascita imperiale russa. Quella linea è il filo del potere che, con differenti gradi di miopia, i leader occidentali hanno cercato di domare, blandire o integrare nel consesso democratico globale. Ma la partita era truccata in partenza: i presidenti americani – spesso più intenti alla narrazione della pace che alla sua effettiva costruzione – hanno proiettato su Putin le proprie aspettative, subendo le sue manipolazioni,. l’aggressività calcolata e la nostalgia non troppo nascosta per un ordine imperiale perduto.
L’apoteosi di questo confronto si è consumata – e continua a consumarsi – nel rapporto tra Donald Trump e Putin, un duello-farsa in cui la scena si alterna tra il teatro della diplomazia e il mercato delle occasioni, fra infingimenti, bugie, ambiguità, inganni, trappole. Trump, il tycoon divenuto presidente, ha incarnato la figura dell’intrallazzista globale: interessato più agli affari che agli equilibri geopolitici, più alle narrazioni semplificate che ai processi diplomatici. Il suo sguardo su Putin non è mai stato strategico, ma commerciale: l’ha trattato come un possibile partner nel business da non scontentare, non come un despota da contenere. Eppure le lezioni del passato avrebbero dovuto mettere in guardia i Presidenti Usa.
Ripercorrendo le tappe del disinganno tutto appare chiaro. Nel decennio post-sovietico, Bill Clinton fu l’alfiere dell’idea che la Russia potesse essere assimilata al nuovo ordine mondiale fondato sulla democrazia liberale. In nome della stabilità globale e dell’allargamento della NATO, chiuse gli occhi sulla rapida erosione dei diritti civili in Russia e sulla concentrazione di potere tra oligarchi e servizi. Fu una pax apparente, comprata al prezzo del silenzio.
Con George W. Bush, l’approccio si fece pseudo-intimista. L’ormai celebre frase “ho guardato Putin negli occhi e ho visto la sua anima” suona oggi come una testimonianza di ingenuità. Mentre Bush rincorreva l’illusione di un leader affidabile, Putin metteva a punto la sua macchina di guerra cibernetica, invadeva la Georgia, proteggeva l’Iran e tornava ad alzare i vessilli dell’egemonia regionale.
Barack Obama, con il suo “reset” diplomatico, cercò di riportare la Russia nell’alveo della cooperazione. I risultati furono disastrosi: l’annessione della Crimea, l’intervento in Siria, l’abbattimento del volo MH17. Le esitazioni nel fornire armamenti all’Ucraina e nel contenere Mosca trasformarono l’eleganza del linguaggio diplomatico in un’arma spuntata.
Con Joe Biden, si è tornati a una politica più assertiva ma anch’essa timida nei momenti cruciali. Dopo l’invasione dell’Ucraina, l’amministrazione ha tardato nel fornire i mezzi militari adeguati e ha lasciato ampi margini all’escalation psicologica di Mosca, dal ricatto energetico alla minaccia nucleare. Ed è perfino finito nel tritacarne dei suoi critici ed avversari politici, come un bellicoso pusillanime. Un ossimoro, il capolavoro dell’ex spia del Kgb.
Donald Trump rappresenta tuttavia il caso più emblematico – e inquietante – del fallimento occidentale. Non si è trattato, come per i suoi predecessori, di una sovrastima diplomatica o di un errore strategico. Trump ha guardato a Putin con ammirazione: non per ciò che faceva, ma per come lo faceva. L’autocrate russo incarnava l’uomo forte, capace di muoversi senza dover rispondere a un’opinione pubblica, senza corti costituzionali né media indipendenti. Un modello alternativo all’“impiccio” della democrazia. Ma anche il suo doppio, si rispecchia in lui, lo ammira scoprendone le affinità elettive.
Trump non ha cercato la pace in Ucraina: ha cercato un deal, un affare. L’idea di “negoziare” con Putin è meno orientata al disarmo che alla divisione delle zone di influenza. Nella logica del businessman newyorkese, la guerra è una forma di concorrenza sleale che danneggia il mercato. La pace, per Trump, qualunque sia, è utile solo se permette di rimettere in funzione lo scambio economico. I morti ucraini contano meno dei bitcoin o le terre rare. E Putin, conoscendo a menadito il suo uomo, ed abituato ad utilizzare il potere come leva per l’arricchimento del suo clan, ha trovato in Trump un partner in affari più che un avversario politico. Si finge paziente, mentre aggredisce, lo elegge come alleato per cancellare gli europei, lo corteggia lasciandogli credere che potrebbe preferirlo a Pechino
Ma qui sta il punto: mentre Trump agisce da speculatore, Putin agisce da restauratore, costruttore dell’impero. Putin non vuole solo restaurare l’influenza russa: vuole riaffermare un principio arcaico di sovranità assoluta, modellata sulla verticalità dello zarismo e sull’onnipotenza dei servizi. In questo, la sua grandeur personale e quella della Russia coincidono: egli è la Russia. Trump si sente anch’egli l’America, ma senza sovrastrutture secolari, interpreta il capitalismo nella sua forma più cinica, indifferente ai confini, ai popoli. Due narcisismi geopolitici si incontrano: il potere per Putin è mezzo e fine; per Trump, è un asset da monetizzare.
La guerra in Ucraina è il terreno su cui queste due visioni si rivelano irriducibilmente inconciliabili. Nessuna reale trattativa può scaturire da un approccio che considera la pace un affare e la sovranità una moneta di scambio. Le illusioni dei leader occidentali – dalla “nuova rotta” di Tony Blair alla “buona chimica” di Biden – hanno solo rafforzato il manipolatore del Cremlino, che continua a usare la debolezza altrui come carburante del proprio disegno egemonico. Oggi più che mai, è chiaro che non si può negoziare con la brutalità come si farebbe in una compravendita di grattacieli. Ma finché la politica estera resterà loro ostaggio, il ring planetario vedrà ancora scontrarsi l’intrallazzista e il manipolatore, in una lotta che potrebbe lasciare solo le macerie.
In questo contesto i leaders politici italiani, Meloni, Salvini e Tajani in testa per le loro responsabilità di governo, appaiono dei nani che inseguono un posto al sole nel cortile di casa propria.







