Nell’attuale maggioranza di governo ciascun partito della coalizione – FDI, FI e Lega – ha scelto un obiettivo distintivo su cui puntare per costruire la propria identità agli occhi dell’elettorato: Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia spingono per il premierato, Matteo Salvini e la Lega insistono sull’autonomia differenziata e sulla riforma della giustizia, mentre Forza Italia, guidata da Antonio Tajani, cerca di mantenere vivo il lascito berlusconiano attraverso proposte di stampo moderato, ed ha fatto della separazione delle carriere il suo obiettivo contingente. Tuttavia, il successo di ciascuna di queste “carte” è inestricabilmente legato al destino delle altre.
Il “gioco delle tre carte” politico non è mai stato così evidente e, allo stesso tempo, così rischioso. Il centrodestra ha scommesso tutto su un patto che lega in modo spregiudicato riforme di enorme portata all’imperativo del consenso elettorale. Le proposte avanzate – il premierato, la separazione delle carriere, l’autonomia differenziata – non sono il risultato di un dibattito organico o di un’analisi approfondita delle loro implicazioni, ma risposte calcolate a segmenti specifici di elettorato.
Questa impostazione rivela la fragilità dell’azione di governo: se anche una sola delle tre “gambe” del patto cede, l’intero edificio rischia di crollare. E la Corte Costituzionale ha già dato un duro colpo a uno degli obiettivi più simbolici della Lega, l’autonomia differenziata. Dichiarandone l’incostituzionalità in alcune parti, la Corte ha evidenziato che il disegno di regionalismo proposto da Salvini non solo era politicamente divisivo, ma giuridicamente debole. Quel che resta del progetto è poco più di una promessa svuotata, raccolta e rilanciata come se fosse ancora il cuore della riforma, ma incapace di soddisfare le aspettative dei territori che la Lega voleva rappresentare.
Anche il premierato, fiore all’occhiello di Giorgia Meloni, solleva criticità. La riforma, che punta a rafforzare la stabilità dei governi attraverso l’elezione diretta del primo ministro, rischia di alterare gli equilibri istituzionali senza affrontare le vere debolezze del sistema politico italiano. Rafforzare il ruolo del premier potrebbe accentrare oltremisura il potere esecutivo, mettendo a rischio la funzione di controllo e bilanciamento svolta dal Parlamento e dal Presidente della Repubblica.
Inoltre, la proposta non ha generato un consenso ampio, ma è vissuta piuttosto come una bandiera ideologica di Fratelli d’Italia. La mancanza di dialogo con le opposizioni e con gli esperti costituzionalisti riduce le possibilità di approvazione e aumenta il rischio di uno scontro istituzionale che potrebbe paralizzare il Paese.
La riforma della giustizia, con il focus sulla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, è un altro pilastro del patto di governo. Sebbene questa proposta venga presentata come una misura di modernizzazione e garanzia di imparzialità, solleva numerosi dubbi. Da un lato, essa sembra rispondere più agli interessi di una parte politica che a un’effettiva esigenza del sistema giuridico; dall’altro, rischia di minare l’autonomia e l’unitarietà della magistratura, principi fondamentali della Costituzione italiana. Questa riforma tuttavia, non affronta le vere radici dei problemi della giustizia italiana, come l’eccessiva durata dei processi e la carenza di risorse.
Il destino politico del governo del centrodestra appare legato a un equilibrio estremamente fragile. L’azzoppamento dell’autonomia differenziata, unito alle incertezze sul premierato e alle divisioni sulla giustizia, rischia di trasformare le grandi ambizioni in una sequela di promesse non mantenute.
A questo si aggiunge un problema di metodo: l’assenza di una visione complessiva e condivisa, la mancanza di una reale progettualità a lungo termine. Il centrodestra sembra puntare più a costruire consensi immediati che a disegnare riforme capaci di affrontare i nodi strutturali del Paese.
Il futuro appare incerto, segnato da un crescente scollamento tra le ambizioni dichiarate e le capacità reali di realizzarle. Un rimprovero, dunque, è inevitabile: il gioco della politica non può essere solo calcolo elettorale.