Esistono parole che muoiono di morte naturale, come vecchi aristocratici decaduti, e altre che vengono trucidate in piazza, fra schiamazzi e brindisi di birra calda. “Sobrietà” appartiene alla seconda categoria. Non che se la passasse bene, già da tempo: nel mondo dove vince chi urla più forte, dove la motosega detta l’agenda e il libro di storia viene sfogliato solo per cercare citazioni da stravolgere su TikTok, la sobrietà era diventata un fastidioso soprammobile, roba da museo etnografico.
Così, al cospetto di un’Italia ormai avvezza alla polarizzazione come stile di vita, il ministro Musumeci – personaggio che Montaigne avrebbe forse catalogato tra gli “onesti mediocri” o fra i risorti –, ha pensato bene di evocarla proprio alla vigilia del 25 aprile, festa ambivalente per definizione: celebrazione della Liberazione dal nazifascismo e della nascita dell’Italia repubblicana, certo, ma anche specchio annuale delle nevrosi nazionali. Insieme a una dichiarazione di cinque giorni di lutto nazionale, senza precedenti nella storia unitaria, il suo richiamo alla “sobrietà” è suonato come il rintocco fuori tempo di una campana stonata. Alla vigilia del 25 aprile, festa non di una parte ma della rinascita stessa della Repubblica, il suo appello alla “sobrietà” è risuonato come un tonfo. Non un invito al decoro, bensì una provocazione, un “di più di quell’indigeribile drittata di cinque giorni di lutto nazionale. Un inedito, nella lunga storia dell’Italia unita, che ha fatto suonare il campanello d’allarme anche ai più distratti.
Non ci voleva un Pasolini per intuirlo: in un Paese che, nella migliore delle ipotesi, vive di memoria intermittente, toccare il 25 aprile significa scatenare tempeste. Qui, come annotava Leopardi nello Zibaldone, “ogni passione, anche la più bieca, ha più forza della ragione”. Così è stato: i talk show si sono trasformati in tribunali popolari, dove la sobrietà veniva processata come un nemico della rivoluzione. Non nuova a simili umiliazioni, la parola si è trovata fra il martello del sovranismo da motosega e l’incudine della religione woke, che pretende la purezza assoluta, pena l’espulsione dal consesso civile. N
Eppure, la sobrietà non era sempre stata così sfortunata. Nel 2011, Mario Monti l’aveva addirittura trasformata in cifra di governo. Quel Montgomery grigio chiaro – sobrio e vagamente malinconico – era diventato un’icona dell’Italia che tentava di raddrizzarsi, come un alcolista in bilico all’uscita dalla riabilitazione. Tempi in cui l’understatement era ancora considerato una virtù, e non un sintomo di pusillanimità.
Ma il 25 aprile è materia incandescente, e nemmeno un intero guardaroba di Montgomery avrebbe potuto proteggere Musumeci dalla tempesta che lui stesso ha contribuito ad alimentare. Come il famoso “stai sereno” di Matteo Renzi a Enrico Letta – che fu il preludio al più disinvolto dei tradimenti politici – l’appello alla sobrietà ha rivelato la sua natura performativa: non un consiglio, ma una dichiarazione di ostilità travestita da buonsenso.
Non è un caso che nei regimi – di destra, di centro, di sinistra – la sobrietà venga sempre sospettata di essere una debolezza. Dove comanda la forza bruta, il garbo è visto come un atto sovversivo. Per questo, come avrebbe detto Pasolini, l’Italia “reale”, quella dei palazzinari e dei burocrati zelanti, vince regolarmente contro l’Italia “ideale”, quella dei Montgomery e dei pensieri sobri.
Con buona pace di Musumeci e dei suoi improvvidi consiglieri, la sobrietà non è una qualità che si può invocare a comando come un’ordinanza di polizia municipale. È, semmai, un habitus interiore, una lente attraverso cui si guarda il mondo con ironia e misura. In sua assenza, resta solo il clangore delle motoseghe e l’eco delle scimitarre, mentre le parole, ormai esauste, si ritirano nell’ombra come vecchi combattenti senza più una guerra da combattere.