Vittimismo aggressivo, con questa espressione opinionisti, politologi ed esperti della comunicazione definiscono il linguaggio e la strategia politica della premier. Fidelizza o suscita reazioni sgradevoli? I sondaggi, all’indomani del caso Almasri, e l’aspro confronto. Fra potere esecutivo e potere giudiziario, sembrano premiare la postura del Presidente del Consiglio.
Il termine “vittimismo aggressivo” non nasce da una scienza codificata, si presta a molteplici interpretazioni, soprattutto nel contesto sociopolitico italiano contemporaneo. Lo si può vedere come una sorta di “maschera sociale” o “tattica comunicativa”, a metà tra la rivendicazione di torti subiti e l’energia combattiva di chi non si arrende. Non è quindi solo uno stato emotivo, ma anche una strategia. Ed è proprio in questa ambiguità che risiede il suo fascino – o la sua sgradevolezza, dipende dai punti di vista.
Nel vittimismo aggressivo si mescolano il lamento e l’indignazione con toni battaglieri, che non cercano solo empatia ma puntano anche a colpire gli avversari. In poche parole, è il “piangersi addosso”, ma con i denti ben affilati. Non si tratta di un classico “lamento passivo”, che suscita empatia e voglia di aiutare. Qui c’è un’aggressività latente o esplicita: il messaggio è più o meno questo – “Io sono la vittima, ma non resterò tale senza farvi pagare il prezzo del vostro comportamento”.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni sembra aver contribuito a portare questo stile alla ribalta, tanto da poter essere considerata una sorta di “scopritrice” di questa categoria sociale. Nelle sue dichiarazioni pubbliche, Meloni spesso rivendica il suo passato di outsider: donna, madre, proveniente da un partito considerato marginale e spesso attaccata dagli avversari politici e dai media. Questi elementi di “vittima designata” sono però ribaltati con forza, trasformandoli in armi retoriche. La sua frase iconica “Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana” non è solo una rivendicazione identitaria, ma anche una risposta sfidante a chi avrebbe voluto ridicolizzarla. Questo stile attira consensi perché parla a una platea di persone che si sentono marginalizzate o inascoltate. Non solo le difende, ma promette loro di non abbassare mai la testa.
Come si riconosce il vittimismo aggressivo? Il lessico emotivo, anzitutto, spesso carico di termini che evocano sofferenza o ingiustizia subita (“attacchi ignobili”, “sotto assedio”, “mi vogliono fermare”). Il tono epico e combattivo: il linguaggio del vittimismo aggressivo non si limita a un semplice lamento, ma ha un’energia quasi eroica. Spesso c’è un appello al “noi” contrapposto a “loro”. La rivendicazione morale: si cerca di monopolizzare il ruolo di chi ha ragione, a prescindere dalla complessità dei fatti.
La postura e i toni sono essenziali: Gesti decisi e assertivi: mani serrate, sguardo fisso, postura eretta. Anche nel momento in cui si espone la “ferita”, il messaggio visivo è quello di un guerriero che non cede. Il ono enfatico crea un’intensità sopra la media, che dà l’idea di un’urgenza morale.
Fondamentali i tempi e la scelta dei contenuti. L’agenda politica deve essere dettata dal vittimista aggressivo, che così traccia il terreno del confronto, avendone conoscenza accurata e disponendo perciò di elementi che possono spiazzare gli avversari. L’obiettivo è, ovviamente, la ricerca del consenso: il vittimismo aggressivo mira a parlare a un pubblico specifico, spesso polarizzandolo, bianco o nero, buoni e cattivi, persone perbene e persone permale. I destinatari sono coloro che condividono lo stato di presunta “vittima”. L’attacco difensivo non si limita a raccontare un’ingiustizia; accusa gli avversari di averla provocata.
Destinatari sono anzitutto coloro che si riconoscono nel racconto dell’ingiustizia subita. Si crea così una connessione emotiva forte, quasi viscerale; gli interlocutori/avversari allo scopo di metterli sulla difensiva, obbligandoli a giustificarsi; i simpatizzanti indecisi, sui quali il vittimismo aggressivo può agire come collante per chi non è convinto, ma potrebbe essere conquistato dalla forza con cui il messaggio è veicolato.
L’effetto primario cui si tende è la fidelizzazione: chi si sente rappresentato dal vittimismo aggressivo tende a legarsi emotivamente, quasi come se fosse parte di un movimento di liberazione personale e collettivo.
Per gli avversari o i neutrali, questo stile può risultare esasperante, se non manipolativo. Non tutti apprezzano un tono così divisivo, le reazioni sono sgradevoli, ma sono messe in conto. I dividendi risultano largamente soddisfacenti al botteghino del consenso politico ed elettorale.
Giorgia Meloni non è la prima ad usare il vittimismo aggressivo come leva comunicativa, ma la sua diversità – vulnerabilità e forza – le concede una identità unica, perché si serve dell’attacco, dell’enfasi arrogante, dei toni roboanti e caustici (“Stiamo facendo la storia..“), della narrazione personale suprematista che ne accentua l’efficacia. E’ una vittima che maramaldeggia, mostra un nemico inevitabilmente perdente, erede della vecchia destra e, per qualch verso, anhe della retorica fascista.
Potremmo dire che il vittimismo aggressivo è un po’ come un caffè corretto: il lamento è il caffè, amaro e pungente, mentre l’aggressività è la correzione alcolica, che dà quel pizzico di fuoco in più. Funziona bene con un pubblico già nervoso o desideroso di essere rassicurato. Ma attenzione a non esagerare con le dosi: troppo alcol può dare alla testa.







