Negli altopiani aridi del Nuovo Messico, nelle zone desertiche del nord del Messico o negli angoli più remoti del Montana, sorgono – talvolta invisibili, talvolta fieramente esibiti – interi complessi residenziali iper-sicuri, progettati per resistere non solo a uragani o attacchi nucleari, ma alla più temuta delle eventualità: la guerra civile americana, il terremoto, l’attacco atomico, la tempesta perfetta, il virus letale, la fine del mondo non è più un’astrazione millenaristica o un topos da cinema catastrofico. È una possibilità concreta, contemplata, studiata, pianificata – e soprattutto attesa. Da chi? Da coloro che, paradossalmente, hanno tutto da perdere: miliardari della Silicon Valley, élite finanziarie, tecnocrati dell’intelligenza artificiale, ma anche settori “disillusi” della borghesia statunitense, che alimentano l’industria in piena espansione dei survival bunker. Il sogno americano, rappresentato dal cinema con il volto dello strillone che conquista la ricchezza e con un’America libera in cui tutto è possibile, oggi è il rifugio blindato del magnate col filtro antiatomico e le scorte a lunga conservazione.
L’America dell’era trumpiana – muscolare, cinica, arrogante, illiberale – con le sue milizie armate fino ai denti, il Congresso assaltato da golpisti impuniti, le tensioni sociale e razziali, la guerra alle università ed agli immigrati, il collasso delle mediazioni istituzionali, ha inoculato nel corpo sociale un’ansia metastatica. Non si tratta più solo di sopravvivere a un evento esterno (una pandemia, un meteorite, una bomba atomica): si tratta di sopravvivere agli “altri”, americani e non. Il bunker non è solo un rifugio fisico: è un’architettura mentale. È il simbolo di una civiltà che ha perso fiducia nel mondo che ha costruito, e che cerca la salvezza in una capsula d’acciaio, nella tecnologia che doveva emancipare e invece isola. È il dispositivo attraverso cui si progetta una fuga selettiva, dove la sicurezza è una merce, e la paura il motore ultimo della domanda.
La tecnologia, che un tempo incarnava la speranza del progresso collettivo, oggi costruisce porte blindate e camere di decontaminazione. Elon Musk vuole colonizzare Marte, ma finanzia bunker in Texas. Peter Thiel investe in rifugi antisismici in Nuova Zelanda. Il sogno si è rovesciato: l’utopia ha cambiato polarità e si è fatta distopica, privata, inaccessibile. Questa fuga verso il sottosuolo o verso l’altrove – geografico, atmosferico, persino planetario – rappresenta la rottura definitiva del patto tra chi ha e chi non ha. Il bunker è la privatizzazione dell’apocalisse. Invece di impedire il collasso, ne prende atto e si agisce di conseguenza: si costruiscono santuari per pochi, lasciando la moltitudine in balìa delle intemperie, delle crisi, delle guerre future.
Se un tempo la ricchezza poteva essere considerata un’arma contro l’instabilità, oggi è la ricchezza stessa a generare instabilità, perché produce segregazione, cinismo, disillusione. La potenza finanziaria, invece di riformare la società o di costruire resilienza collettiva, si rifugia nei recessi della terra o nei sistemi d’autodifesa automatizzati, in una sorta di autismo infrastrutturale. La scienza delle innovazioni, la tecnologia avanzata, produce l’antiscienza: la negazione della crisi climatica, del vaccino contro le pandemie. Un paradosso.
Negli Stati simbolo della libertà individuale e del primato del mercato – la California iperprogressista ma militarizzato da Trump, il Texas ultraconservatore e deregolamentato – il bunker sta diventando non solo un’opzione, ma un bisogno. Il fatto che le fabbriche di bunker prosperino in Texas, lo Stato colpito da uragani e blackout, non è casuale. È il rovescio della stessa medaglia. Da una parte, il negazionismo trumpiano antiscientifico, l’antica incapacità sistemica degli Stati americani di prevenire e gestire i disastri ambientali, frutto di decenni di privatizzazioni e disinvestimenti pubblici; dall’altra, la creazione di un’industria del panico che risponde alla logica del profitto e dell’esclusività.
Questa attesa dell’apocalisse è la forma suprema del privilegio occidentale. Solo chi ha tutto, o molto da perdere, può pensare di salvarsi dalla fine di tutto. Il bunker tuttavia non protegge dal vuoto. Piuttosto lo amplifica. È il monumento a una civiltà che mon sa più convivere, e che ora cerca di sopravvivere da sola, isolandosi, che crede di potere prosperare a danno degli altri, senza rendersi conto che – ammoniva Camus – «non c’è salvezza per l’uomo fuori dalla solidarietà con gli altri uomini».
Nel bunker non si muore. Ma nemmeno si vive. E’questo il mondo cui vuole assomigliare l’Italia sovranista di Giorgia Meloni? Un bunker grande quanto la nostra casa?







