Si doveva a lui se Gela aveva finalmente una storia e se di essa era informato il mondo. Nel suo racconto Vincenzo Interlici evitava di incensarsi a chiare lettere ma era la sua faccia a parlare eloquentemente. Concedeva con generosità una parte nella fruizione dei reperti a re Olaf di Svezia, con cui era entrato in confidenza grazie all’amore del monarca illuminato per archeologia e per l’Italia, la Sicilia in particolare. Non volle spartire con alcuno il signo e la scoperta. Nessuna citazione dedicava agli archeologi – Paci, Orsi, il rumeno Adamasteanu – che ci avevano perso le nottate a cercare “il teatro greco” e le antiche vestigia della Gela greca, fondata dai rodio-cretesi circa cinque secoli prima di Cristo. Era infatti il teatro greco che si cercava, non le mura timoleontee, perché Eschilo aveva trascorso metà della sua vita a Gela e quindi non poteva non esserci un sito per le rappresentazioni delle sue tragedie.
Senza il sogno premonitore di Vincenzo Interlici Gela non avrebbe avuto una storia, una qualsiasi, perché dalla distruzione dell’antica Gela per opera dei cartaginesi al Diciannovesimo secolo, non c’era niente o quasi nei libri. La colonia greca e basta, quella che Virgilio, circumnavigando l’Isola, immaginò “immanisque Gela nomine fluminis dicta”.
E’ come se fossero state cancellate le pagine superflue, come se la città non fosse esistita “dopo”, nonostante sulle rovine della colonia greca fosse nata la Gela federiciana con le sue fortificazioni sul letto della collina. Si sono serviti di forbici e bianchetto, o apposto sulle pagine “inutili” una croce, per avvertire che il testo non serviva a nulla. Avrebbe potuto essere letto certo, ma giusto per togliersi lo sfizio. La storia antica, e solo questa, aveva diritto alla memoria.
Le forbici hanno tagliato i decenni successivi allo sbarco degli americani fino alla scoperta del petrolio, tacendo sui feudi e i signorotti, sul popolo dei braccianti e dei contadini per secoli curvi sulle distese di frumento e e cotone della piana e su qualche vigna ad ovest della collina. Hanno invece concesso pagine su pagine al racconto dell’insediamento del petrolchimico, alle rodomontate dei capitani d’industria succeduti a Enrico Mattei, a Gela-Mafiaville e le sanguinose guerre di mafia.
Sul declino della fabbrica hanno invece adoperato il bianchetto, scolorendo le pagine, illeggibili fino a un certo punto al fine di lasciare in vita le ombre riesumabili in caso di bisogno. Pollice verso ma non troppo. In definitiva dalla città greca si va, grazie ad un salto di quasi duemila anni, allo sbarco degli americani, l’industrializzazione e le stragi di mafia.
Come si sia riusciti ad annodare il filo della storia è un mistero. Ce l’hanno fatta solo gli ebrei, che dalla diaspora, seguita alla distruzione del tempio (per opera della Legione siciliana, comunemente detta X Legio Fraetensis), si ritrovano d’un colpo alla nascita dello Stato d’Israele, nella seconda metà degli anni Quaranta. Ma Israele ha dovuto tenere acceso il braciere del conflitto permanente per fare storia, giorno dopo giorno. E può contare su sponsor in ogni parte del mondo.
Non sopravvivono all’oblio i quattro decenni del post insediamento della fabbrica che conducono allo spegnimento delle ciminiere. La cronaca della quotidianità è ima fioca candela tenuta accesa dal rimpianto, la delusione, la rabbia; vive, semplicemente perché non può essere cancellata: nessuno potrà far credere ai gelesi di non esistere.
La Gela odierna, tuttavia, è figlia della Gela federiciana e non della Gela antica, se proprio dobbiamo indicare un tempo ed un popolo dal quale pretendere l’eredità. Le famiglie di mafia odierne di contro vengono dall’epopea degli stiddari e dei mafiosi dell’entroterra nisseno e palermitano, non dallo sbarco degli Alleati nel golfo di Gela. L’industria non ha storia, ha una genitura rivoluzionaria, come la mafia, negli anni sessanta e settanta.
Le omissioni, gravi e frequenti, qualche volta vengono alla luce, se fortunate circostanze lo consentono, ma è un terno al lotto. Chi sa qualcosa sul movimento dei Fasci dei Lavoratori che nel XVIII secolo ebbe proprio a Gela un ruolo rilevante, grazie ad Aldisio Sammito (ci sono corrispondenze preziose di Sammito con Garibaldi)? E chi ha mai studiato e raccontato l’autunno caldo di Gela negli anni settanta (il sessantotto sindacale), o la presenza, folta e importante di Lotta Continua, che vide a Gela personaggi come la Faranda ed altri, che avrebbero segnato la storia del terrorismo italiano.
E lo spegnimento delle ciminiere, sprofondato nel silenzio e nel buco nero dell’antimeridionalismo padano, quanto conta nella storia della città, della Sicilia, del Mezzogiorno, del Paese?
Se pensate che, tutto sommato, si possa a fare a meno delle pagine sforbiciate, sbianchettate e imbrattate d’inchiostro, Vi sbagliate di grosso.
Il giudizio che viene dato alla classe dirigente di Gela, affatto generoso, è il risultato di un gap identitario, e questo è figlio delle omissioni subite dalla storia. Una manipolazione nemmeno pianificata né consapevole, ma perpetrata nel corso dei decenni a causa dell’abbrutimento culturale che si respira nella Gela odierna.
Non è certo un caso che l’unica eccezione in questo rumoroso silenzio sia stata il saggio di due sociologi di rango, Eyvind Hytten e Marco Marchioni con “Industrializzazione senza sviluppo. Gela, una storia meridionale”: il primo era norvegese, il secondo romano con una lunga permanenza nella Spagna franchista al tempo della dissidenza antifascista. Un’altra storia, insomma, che si è incrociata “casualmente” con quella, lamentosa querula e mariuola, di Gela.