Bisogna stare in compagnia per sentirsi solo. E’ una vita che me lo sento dire e che lo ripeto come un mantra a me stesso, perché è negli occhi di chi ti guarda senza vederti che la solitudine ti coglie, magari di soprassalto, e scava nell’anima fino a farti smarrire. Non basta ascoltare una voce, o parlare con qualcuno per non farti sommergere, se ti senti solo. Devi sperare che siano gli altri ad accorgersene. Qualcosa, che cosa?, però ti fa pensare che non puoi chiedere nulla, altrimenti quel che ottieni non serve a niente. Solo chi capisce, può entrare nel tuo deserto e tirarti fuori. Certo, potresti farcela anche da solo, ma dovresti avere dentro ancora la forza necessaria. Se ti sei abbandonato alla solitudine, hai tagliato i ponti, lasciando che la solitudine divenisse irredimibile, la volontà, lo strumento che ti serve, si è persa, è introvabile.
La solitudine, da sempre considerata una condizione esistenziale dell’essere umano, è divenuta un fenomeno centrale di riflessione e analisi negli ultimi anni, in particolare a seguito dell’epidemia di Covid-19. Durante la pandemia, infatti, la solitudine ha assunto una dimensione collettiva, toccando anche coloro che mai avrebbero immaginato di sentirsi così isolati, nonostante la presenza virtuale di amici, familiari o colleghi. Le conseguenze di questo isolamento hanno rivelato una vulnerabilità psicologica e sociale profonda, confermando come la solitudine non sia semplicemente la mancanza di contatto con gli altri, ma una condizione più complessa e insidiosa. Mi chiedo tuttavia se questa dimensione collettiva sia stata sopravvalutata o l’epidemia abbia trovato terreno fertile in una realtà sociale provata dal senso di isolamento, divenuto pervasivo.
Le risposte bisogna cercarle nelle analisi degli esperti.
Matthew Shaer, giornalista, approfonndisce sul New York Times Magazine il tema in un articolo ripreso dalla rivista Internazionale, sottolineando come la solitudine sia una sensazione composita o multidimensionale, che ingloba elementi di tristezza, ansia, paura e angoscia. Questa condizione, avverte Shaer, è un’esperienza intrinsecamente soggettiva, che varia da individuo a individuo. Le persone cronicamente sole spesso faticano a trovare qualcuno che possa comprendere pienamente il loro disagio, proprio perché questa sensazione è così profondamente legata alla propria interiorità.
In questo senso, la solitudine può essere vista come un “deserto emotivo”, dal quale solo chi comprende veramente la profondità del problema può aiutare a uscirne. Non è sufficiente avere una rete di contatti o parlare con qualcuno, se queste interazioni non portano a una reale connessione emotiva. Come suggerisce il pensiero di molti esperti, il rimedio alla solitudine non può essere imposto dall’esterno: è necessario che vi sia una comprensione reciproca, un riconoscimento autentico dell’altro.
Già negli anni ’80, Daniel Perlman e Letitia Anne Peplau, due psicologi sociali, ricorda Matthew Shaer, avevano offerto una definizione precisa della solitudine: “una discrepanza tra il livello di relazioni sociali desiderato e quello reale”. Questo concetto spiega come la solitudine non sia legata solo alla quantità di interazioni sociali, ma alla loro qualità e al senso di appagamento che ne deriva. È possibile sentirsi soli anche in mezzo a una folla, come spesso viene detto, perché ciò che conta non è la presenza fisica delle persone, ma la percezione del legame e del coinvolgimento emotivo.
La psicologa Milena Batanova, prosegue Matthew Shaer, ha esplorato questa condizione da una serie di angolazioni diverse, ponendo domande fondamentali: “Hai l’impressione di cercare le persone più di quanto loro cerchino te?”, “Ci sono persone nella tua vita che ti chiedono cosa ne pensi di questioni che sono importanti per te?”. Queste domande rivelano come il senso di solitudine possa emergere non tanto dalla mancanza di contatti, quanto dall’assenza di relazioni profonde e significative, in cui l’individuo si senta ascoltato e valorizzato.
Il tema della solitudine, scrive ancora Matthew Shaer, ha preso una svolta più drammatica con gli studi condotti da John Cacioppo, neuroscienziato di fama mondiale, e dalla sua collega Louise Hawkley. Essi hanno dimostrato come la solitudine possa avere effetti devastanti sul corpo umano. La solitudine innalza la pressione sanguigna, altera negativamente le funzioni cognitive e accorcia la durata della vita. La solitudine cronica è stata inoltre collegata a patologie come il diabete di tipo 2, l’Alzheimer, la leucemia e, in casi estremi, alla tendenza al suicidio. Questo quadro clinico evidenzia quanto la solitudine possa essere un fattore di rischio per la salute, al pari di altre condizioni psicologiche o fisiche.
La pandemia ha accelerato la consapevolezza delle conseguenze della solitudine, ma ha anche stimolato nuove riflessioni su come le società moderne possano affrontare questo fenomeno. Sono stati avviati studi, ricerche e confronti a livello internazionale per comprendere meglio come intervenire. Tra le possibili soluzioni emergono iniziative legate alla promozione del benessere mentale, la creazione di reti di supporto sociale e un ripensamento della cultura del lavoro, che spesso contribuisce all’isolamento.
In sintesi, la solitudine si configura come una condizione complessa, che tocca aspetti emotivi, psicologici e fisici dell’individuo. La sua gestione richiede perciò interventi multidisciplinari, che tengano conto non solo della dimensione personale, ma anche di quella sociale e collettiva. deffinitiva, il sistema di relazioni e di organizzazione sociale, gli squilibri sociali, lo stesso ambiente – fisico, politico, sociale – è causa determinante, nel bene e nel male, del nostro male di vivere, che ha nella solitudine il nemico più tenace.