In una delle sue interpretazioni più iconiche, Totò, osservato da uno psichiatra in una clinica psichiatrica, descriveva il mondo come un palcoscenico diviso tra “uomini” e “caporali”. Una visione dicotomica, in cui gli uomini rappresentano la maggioranza sofferente e i caporali una minoranza prepotente, incarnazione del potere abusivo e del comando oppressivo. Questa contrapposizione, sebbene formulata in un’epoca passata, continua a essere, almeno in parte, un riferimento nel dibattito contemporaneo sul rapporto tra leader e subordinati. Gli strumenti del potere possono essere cambiati, le strutture sociali e aziendali possono essersi evolute, ma l’essenza del “caporale”, inteso come chi detiene il controllo e talvolta lo esercita in modo arbitrario, persiste ancora oggi.
Negli anni cinquanta, in epoca postfascista, il ricordo dei “caporali” venne vissuto con intensa partecipazione. Tuttavia, le gerarchie sono rimaste, né potrebbe essere diversamente, è fisiologico; esistono i capiufficio, i boss, le “cattedre” morali, culturali, economiche, sociali, ecc. E c’è ancora chi, come il Marchese del Gillo, può affermare, magari senza fiatare, “io sò io, e tu…”. Paolo Stoppa, nel film di Totò (“Siamo uomini o caporali?) interpreta tutti i “caporali”: il direttore del teatro, il soldato fascista, il criminale nazista, l’ufficiale americano, il giornalista senza scrupoli e l’imprenditore lombardo. Totò, invece, nelle varie storie del film, che raccontano le vessazioni subite, è sempre lo stesso.
Il caporale di Totò non indossa più il fez né si rifugia in ideologie totalitarie; oggi porta abiti sartoriali, gestisce riunioni e parla di leadership con linguaggio manageriale. Ma la sua funzione, almeno secondo quanto riportano le ricerche più recenti, non sembra essere percepita in modo particolarmente diverso dai suoi “subordinati”. Uno studio della LIUC Business School di Castellanza, ripreso dalla rivista Focus, offre un quadro disarmante: tre dipendenti su quattro non consiglierebbero il proprio capo ad altri. Un dato che getta un’ombra pesante sul rapporto tra chi esercita il potere e chi ne subisce le conseguenze.
Siamo ben lontani dalle teorie illuministiche del “buon capo”, figura che dovrebbe guidare con saggezza e giustizia, incarnando un equilibrio tra la necessità di perseguire obiettivi aziendali e il rispetto dell’individualità del dipendente. Le gerarchie sono ancora radicate, e il capo, per molti, rimane una figura opprimente piuttosto che illuminata. Non è difficile immaginare che nella mente del leader moderno convivano tensioni contraddittorie. Da una parte, c’è la pressione costante di raggiungere obiettivi economici, di rispondere ai consigli di amministrazione, di competere in un mercato sempre più esigente, la gestione delle risorse, il raggiungimento delle performances, l’interesse economico. Dall’altra, c’è la necessità, almeno a livello teorico, di gestire il capitale umano in modo da evitare conflitti e promuovere un clima di collaborazione e fiducia. In questa tensione si inserisce l’evoluzione del ruolo del capo, che, se un tempo si fondava su una visione autoritaria e verticale, oggi deve fare i conti con nuove teorie di leadership partecipativa, empatica, olistica.
Eppure, come dimostrano i dati, la realtà è ben più sfaccettata. Il malcontento dei dipendenti non è un residuo del passato ma un sintomo di una crisi latente che si manifesta in modalità di gestione ancora troppo spesso lontane da quegli ideali di leadership condivisa e responsabile di cui tanto si parla nei convegni manageriali.
Sebbene siano passati decenni dalla figura dei caporali in senso stretto, la struttura del potere continua a essere caratterizzata da dinamiche gerarchiche che, pur formalmente evolute, restano nelle loro essenze legate a logiche tradizionali. I boss, i capiufficio, le “cattedre” morali ed economiche, sono ancora figure centrali della nostra quotidianità professionale e sociale. In un contesto del genere, il bullismo aziendale, pur sanzionato quando emerge in modo evidente, è spesso sottile e impercettibile. Esso si manifesta in forme di microaggressione, pressioni implicite, mancanza di riconoscimento e scarsa valorizzazione del lavoro svolto e del merito.
Non stupisce dunque che il Marchese del Gillo, resuscitato sotto altre vesti, possa ancora affermare, magari senza pronunciarlo apertamente: “Io sono io, e tu non sei nulla”. Un’affermazione che non solo risuona nelle parole, ma anche nei gesti e nelle decisioni quotidiane di molti leader contemporanei. Tuttavia, a differenza del passato, il caporale di oggi deve confrontarsi con un contesto regolato da norme e da un certo “galateo” comportamentale, che lo obbliga a contenere le sue derive autoritarie entro limiti formalmente accettabili. La domanda resta: è sufficiente questa formalità a garantire un rapporto più equo e rispettoso?
È evidente che qualcosa sta cambiando. Le ricerche sulla leadership indicano la necessità di una trasformazione profonda nella gestione delle risorse umane. I lavoratori di oggi non sono più disposti ad accettare passivamente il dominio del caporale; anzi, sono sempre più consapevoli del loro valore e richiedono che venga riconosciuto, non solo attraverso la retribuzione, ma soprattutto attraverso il rispetto e l’ascolto.
Il capo di domani dovrà necessariamente evolvere verso una figura capace di conciliare il potere con l’empatia, l’autorità con l’ascolto, la gerarchia con la partecipazione. Non sarà più sufficiente appellarsi a regole formali o a gerarchie imposte: sarà necessario conquistare la fiducia dei propri collaboratori attraverso una leadership realmente condivisa.
Il problema del rapporto tra capo e subordinato non può più essere ignorato, né relegato a una questione di retorica o di teoria. Esso rappresenta una realtà concreta, che affonda le radici nelle dinamiche storiche ma si evolve in modo costante. I caporali, pur sotto altre vesti, esistono ancora, ma oggi, più che mai, devono fare i conti con un mondo che non accetta più passivamente l’abuso di potere. È forse giunto il momento di riscrivere il ruolo del capo, non solo nella teoria, ma nella pratica quotidiana delle nostre vite professionali.