“I social hanno trasformato il lessico del potere in una sorta di oralità trascritta, persino la grammatica istituzionale diventa instagrammabile: non si fa la storia, ma solo stories. Le parole prendono peso se intrise di lacrime, d’inganno o di pentimento non importa. Lacrime che giustificano tutto, anche perché la realtà-rea- lity che stiamo vivendo accondiscende volentieri alla vanità e all’ipocrisia. Compresi i finali. Il corsivo di Aldo Grasso sul Corriere della sera (8.9.24), suggerito da Temptation Island di Maria De Filippi, indaga il viaggio dei sentimenti “fatuo ma acrimonioso…”, ha un orizzonte inquietante, il “requiem per i vittimisti”, piuttosto che la vittoria al traguardo lungo la corsa alla visibilità, costi quel che costi.
Nel mondo dei social, le parole sembrano aver subito una trasformazione radicale, come se avessero perso il loro peso originario, per diventare poco più che un riflesso di un’oralità trascritta. Non si parla più di fatti concreti o di progetti politici, ma di emozioni superficiali e prontamente instagrammabili. L’analisi di Aldo Grasso nel suo corsivo del Corriere della Sera ci offre un’interpretazione amara e al tempo stesso lucida di questo fenomeno, ispirato, non a caso, da Temptation Island di Maria De Filippi, autentico santuario della “realtà” post-reale.
Ed eccoci qui, a raccontare storie che non fanno la storia, ma che riempiono il feed. Il senso del potere e delle istituzioni è evaporato, si è dissolto in una serie infinita di stories, dove l’unico elemento che conta è l’engagement. Anche il dolore, che un tempo aveva un certo peso nella narrazione della vita, oggi viene monetizzato con like, share e commenti. In fondo, chi se ne frega se le lacrime che scorrono sono sincere o meno? L’importante è che facciano views.
Questo viaggio nei sentimenti – fatuo ma acrimonioso, come lo definisce Grasso – ha ormai preso il sopravvento su qualsiasi discorso pubblico. Non conta più avere ragione o torto, non interessa davvero se un’argomentazione è ben costruita o se ci sono dati a supporto. Ciò che importa è che la storia sia emozionale, che colpisca al cuore e, perché no, strappi qualche lacrima (vera o finta poco importa). Persino la grammatica istituzionale, un tempo simbolo di autorevolezza e rigore, è diventata “instagrammabile”. Le parole dei leader di un tempo ora si riducono a hashtag e slogan accattivanti, pronti per essere condivisi e remixati a suon di repost.
La realtà stessa ha ceduto il passo al reality. Come nel caso di Temptation Island, dove i sentimenti vengono messi in piazza, trasformati in una merce da esporre sul mercato dell’intrattenimento. Ma il confine tra intrattenimento e vita vera si fa sempre più labile. Alla fine, conta solo essere visibili, farsi notare, costi quel che costi. Ed è qui che l’ironia raggiunge il suo culmine: chi, come i partecipanti ai reality, cerca disperatamente visibilità, finisce col diventare una parodia di se stesso, una vittima di quel vittimismo performativo che Aldo Grasso descrive come un “requiem”.
È interessante notare come anche i finali, in questo nuovo contesto, siano diventati irrilevanti. La chiusura di una storia non serve più a dare un senso complessivo alla narrazione; l’importante è che ci sia un picco emozionale da sfruttare. L’equivalente moderno del “e vissero felici e contenti” è stato sostituito dal “e fecero milioni di visualizzazioni”.
Forse il vero problema non è tanto la vanità o l’ipocrisia che permeano il mondo social, quanto il fatto che la realtà stessa sembra accondiscendere a tutto ciò con una compiacenza inquietante. Non importa se si tratta di lacrime vere o di lacrime di coccodrillo: finché strappano un like, vanno bene tutte.
Alla fine, però, ci resta un dubbio: non è che siamo diventati tutti un po’ vittimisti, in questa corsa al successo facile e alle emozioni prêt-à-porter? Forse il vero “requiem” non è solo per i partecipanti ai reality, ma per tutti noi che, consapevolmente o meno, ci siamo lasciati travolgere da questa giostra di sentimenti di plastica.