di Salvatore Parlagreco
Giuseppe Civati non è uno scalatore seriale. Nemmeno un passista, se è per questo. E sul traguardo, ancora peggio, è una frana. L’altura gli dà le vertigini, la pianura affollata gli fa perdere l’identità, in velocità si lascia sopravanzare perché non sgomita. Che ricordi non è mai andato da Bruno Vespa.
Un segno inequivocabile. Vive l’anticamera senza farsene una colpa oggi come ieri in quel Pd leopoldino che contribuì a fondare senza menarne vanto. Gli piace piuttosto star dietro alle sue idee, in più disdegna il gregariato.
Nessuno ricorda la sua partecipazione alla nouvelle vague agli albori della Leopolda. Si liberò di Matteo appena il mattatore spicca il volo. E rimane appiedato. Però ha il dono della profezia. Una Cassandra? Una persona perbene non predice sventure. E forse questo spiega tutto.
Interrogato sul futuro del suo ex compagno di viaggio, oggi fondatore di Italia Viva, ha detto di non sapere se riuscirà ad essere l’ago della bilancia. Se regge la svolta elettorale proporzionalista, sostiene Peppino Civati, sarà ricordato come “l’ego della bilancia”. La vocazione leaderista, in linea con i tempi, spiega, lo spinge ad esplorare nuovi orizzonti.
Cosa accadrà al Pd
E al PD di Zingaretti, fratello del commissario Montalbano, che cosa accadrà, gli chiedono? Civati non profetizza su questo terreno, ma possiamo azzardare qualche previsione. Sconfessato il “no bis in idem”, definitivamente (nella sinistra le scissioni sono routine).
La ferita è ancora aperta: il piede sul freno lo posero Massimo D’Alema e Pier Silvio Bersani – il diavolo e l’acqua santa – all’indomani della performannce europea di Matteo. Una batosta, che precedette la fuga, e fu anticipata dai tradimenti nel referendum. Non sorprende che il mattatore abbia il dente avvelenato e che il suo ego mediti vendetta, tremenda vendetta.
La nuova scissione, pianificata in perfetto stile dalemiano, ferma l’ascensore dem al piano basso e lo obbliga a ripartire con fatica.
Peppino Civati dov’è e che fa? Non so rispondere, pare introvabile. Mi piacerebbe se uno come lui, un bravo ragazzo, si gettasse nella mischia magari solo per mischiare le carte. Ci vuole uno con la faccia da bravo ragazzo, quello che nei western di celluloide rassicura il cuore degli spettatori sin dalle prime file,
Ricordate le praterie americane sulle quali le carovane hollywoodiane correvano a briglie sciolte alla conquista del pezzo di terra? E i soldati blu, gli scalpi, i pionieri, il Settimo Cavalleggeri puntuale come un orologio svizzero, l’epopea della ferrovia, le impiccagioni, i pistoleri crudelissimi… E’ questo il contesto che ha bisogno di una faccia rassicurante.
Che c’entra il west con la politica, vi state chiedendo. C’entra, c’entra. Alle urne prossime avremo tre nuovi pistoleri nell’area dem, pronti a sfidarsi all’Ok Korral. Mezzogiorno di fuoco, da Palermo a Roma: Matteo Renzi con Italia Viva, Carlo Calenda con “Siamo Europei” e Giovanni Toti con Cambiamo.
Chi di loro è il più veloce a fare centro?
La grande prateria è l’ologramma fasullo del centro politico, terra di caccia per pistoleri miopi e spaesati. Sono veloci di revolver, ma dilettanti con il fucile, essenziale negli spazi larghi, come le praterie.
Renzi sogna una formazione guarita dal virus correntizio, arrembante e allegra; Giovanni Toti finge di credere nella sua nuova creatura, “Cambiamo” per evitare il declino forzista ed ereditare le spoglie di Forza Italia, cioè un centrodestra mite, stantio e con il fiato corto del suo ex capo carismatico, Berlusconi.
Pensate, le valigie già pronte, è riuscito ad imporre al suo ex partito, l’alleanza di governo con gli odiati nemici grillini. Da gennaio prepara il blitz, rastrellando ben 700 mila euro da finanziatori di buona famiglia e strigliando i suoi fan nel territorio attraverso i “comitati Azione Civile di Ritorno al futuro.”
La Renzexit non è la Brexit, e Matteo non è Johnson, è un pragmatico che per eccesso di autostima ha fatto della rottamazione la sua fortuna ed il suo danno.
Stando al sondaggio più recente, 1 ottobre, le intenzioni di voto non lo premierebbero più di tanto, appena il 3,9 per cento. Più della sinistra di Leu, quanto l’Europa della Bonino, ma dietro la Meloni e lontano anni luce da Pd, M5S e Lega.
E Calenda? Non pervenuto. Dal pianeta Toti i numeri sono ballerini.
Troppo presto per prevedere come finirà. Renzi difenderà il Fort Apache fino all’ultimo, Toti ha già scelto i compagni di viaggio (Salvini e Meloni) e ritroverà Berlusconi, da cui ha divorziato. Idem per Carlo Calenda: “Siamo Europei” , che non ha dove andare, deve cercare compagni di viaggio fra quelli che ha abbandonato, e spiegare l’impossibile: i progetti, le intenzioni, le idee che lo distinguono dagli altri.