(Salvatore Parlagreco) Gela ha vissuto il ’48, non il ’68. Il ‘48 è l’icona delle sommosse contadine, il ‘68 il simbolo della rivoluzione studentesca. Non ho partecipato ad alcuna ribellione, lo confesso. Gela, la città che ho abitato fino al ‘78, ha invece avuto le sue rivolte, nel ’48 e trenta anni dopo, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta.
E’ come se avesse vissuto il suo ‘68. Fuori tempo, magari. Non so indicare date precise, ci sono episodi di cui conservo tuttavia un ricordo diretto indelebile, altri che ho conosciuto attraverso la televisione, i giornali, la radio, come tanti.
Occorre che mi faccia una domanda, anzitutto: che cosa fu il ’68? Una rivoluzione borghese ed elitaria che si consumò nei campus universitari? Il Maggio della Sorbona in Francia? I movimenti extraparlamentari? Il “sei” politico? L’esproprio proletario? La liberalizzazione dei costumi? Le Kessler senza calze nere? Gli hot pant e la lunga serie di film osé nelle sale cinematografiche italiane? O la conquista dei diritti civili, a cominciare dal divorzio?
Forse tutto questo insieme. Forse ciascuno a suo modo ebbe il 68.
Il ’68 francese non ha nulla a che vedere con quello italiano, che incrociò il compromesso storico di Berlinguer al traino del golpe cileno, cancellando mezzo secolo di rivoluzione socialista, annunciata e promessa dai partiti della sinistra storica. Il ’68 non ha nulla a che vedere con la conflittualità permanente nelle fabbriche, e la conquista di nuovi diritti degli operai. O ne è parte?
Orfani della rivoluzione, a causa del compromesso storico, e protagonisti delle battaglie studentesche contro i “baroni” degli atenei e le loro consuetudini, i sessantottini abbandonarono gli strumenti della democrazia per sposare la rivoluzione. Nelle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche.
A Torino si stampava Quindici, un periodico bisettimanale, che si rifaceva al Maggio francese. Ce n’est pas qu’un début, nous continuons le combat, (letteralmente, Questo non è che un inizio, continuiamo la battaglia) – avvertiva Quindici in prima pagina –. A Gela se ne vendevano poche copie. Io ne comprai qualcuna. Mi colpiva il velleitarismo, la credenza di avere il popolo alle spalle, ma anche, e in positivo, la volontà di rompere ogni schema, non subire gli eventi.
A quel tempo credevo che bisognasse conquistare il governo vincendo le elezioni. Insegnavo e scrivevo per il giornale L’Ora. Fra i miei amici, a Gela, c’erano anche sindacalisti e giovani di estrema sinistra, con cui mi piaceva discutere e confrontarmi. Erano confronti civili, né insulti né, tantomeno, violenza.
Gela ebbe il suo ‘68 con le lotte operaie che dalla metà degli anni Sessanta, e per dieci anni circa, guidarono il movimento sindacale meridionale. Divenne dunque una delle capitali del conflitto.
A Gela nacque e si formò un nutrito gruppo di giovani, provenienti da ogni parte d’Italia, che aveva in animo di portare nella fabbrica petrolchimica il dissenso, duro e puro, e riciclarlo per farne una lotta di popolo, fuori dal petrolchimico e battere così il capitalismo.
C’erano molti figli di papà in Lotta Continua a Gela, ma sarebbe ingiusto giudicare l’attività della sinistra extraparlamentare gelese come una battaglia d’èlite. Uno dei giovani più rappresentativi del Movimento era infatti Ciuzzo Abela, famiglia umile di lavoratori. Morì dopo avere scontato un mese di carcere preventivo.
Durante uno scontro con giovani di estrema destra – niente sangue, solo toni forti – nella piazza di Gela, di cui fui testimone, i tutori dell’ordine del tempo scoprirono che aveva in tasca un coltellino “di genere vietato”. Ciuzzo Abela disse di non averne mai posseduto. Non fu creduto. I trenta giorni in carcere, al Malaspina di Caltanissetta, sarebbero stati fatali: il ragazzo era poliomielitico, zoppicava vistosamente, e la sua salute era malferma. Quando uscii dal carcere c’incontrammo. Il suo cruccio era ora la condizione carceraria. “C’è tanto da fare”, mi disse. Se ne andò una settimana dopo.
Il ’68 a Gela non c’è stato, ma ha avuto la sua vittima. Il ricordo di Ciuzzo, a distanza di tanti anni, m’intenerisce e rattrista ancora oggi. Era uno spilungone tutto cuore, incapace di fare male ad alcuno, che aveva deciso di combattere le ingiustizie sociali.
Mi domando ancora se la sua breve vita, morì a 24 anni, e soprattutto la sua ingiusta fine, sia servita a qualcosa. Lotta Continua non aveva collegamenti con il sindacato, né con il mondo politico e sociale di Gela. I suoi funerali in Chiesa ebbero l’omaggio della città, ma dubito che le sue battaglie politiche abbiano influenzato alcuno. Posso però assicurarvi di avere appreso la sua “lezione” e di non avere tradito il suo ricordo. O meglio di avere cercato, ossessivamente, di stare dalla parte giusta, sempre. Continua ad essere per me un simbolo di umanità, altruismo, generosità.
In definitiva anch’io ho avuto il mio ’68. Il vento delle nuove libertà mi ha sfiorato. E accarezzato, grazie a Ciuzzo Abela.