Fra le più cupe ombre che si stagliano all’orizzonte dell’opinione pubblica, poche sagome sono ingombranti quanto quella del dossieraggio. A metà fra spionaggio e mercato nero dell’informazione, si addentra con disinvoltura nei territori dell’abuso e del sospetto, fino a lambire la calunnia. Come nel gorgo del “si dice,” questa pratica trascina nomi altisonanti e l’umile folla nello stesso vortice, tessendo trame d’intrighi che, talvolta, hanno la potenza di uno tsunami, altre volte si sgonfiano come flutti che si rompono placidamente sulla riva, lasciando solo il residuo di un’eco stanca e svogliata.
Chi si indigna?
La gente comune, lo spettatore passivo che talvolta riesce a far udire la sua voce come un’eco ribelle e sincera, o sono piuttosto le élite? I colti e i benestanti, si sa, s’indignano con quel certo distacco, con il fastidio di chi vede nel disordine una distorsione estetica. Scrivono editoriali, discutono con tono basso ma fermo, e rivendicano — fra una citazione di Montesquieu e un brindisi — il diritto alla moralità. Il popolo, al contrario, si indigna in piazza, con urla che ricordano il fragore dell’oceano sotto tempesta, ma spesso, ahimè, non ha il controllo della sua stessa ira. Eppure, questa sua reazione è forse la più autentica, la più vicina a quel “santo furore” che può travolgere barriere secolari. Ma quali effetti concreti ottiene? Il dubbio è inevitabile: sono indignati consapevoli o solo spinti dalla corrente degli eventi?
Come un vento improvviso fra canne di bambù, l’indignazione collettiva scuote gli animi ma spesso sembra scivolare verso l’oblio, come se il tempo potesse rammendare ogni strappo morale. Tuttavia, non sempre tutto si dissolve nell’oblio: certi casi innescano quell’effetto domino inarrestabile, dove il primo scandalo porta inevitabilmente a una scia di svelamenti che raggiungono apici inaspettati. È la curiosità voyeuristica, è la fame di giustizia, è il piacere sottile nel vedere potenti e potenti scivolare nella polvere? Il fascino di questi scandali non risiede solo nel contenuto delle accuse, ma nella struttura della narrazione che li accompagna: si parte con la rivelazione di un segreto, magari sussurrato e insabbiato, per poi scivolare in un meccanismo a catena che contagia il pubblico, creando indignazione in massa. L’indignazione allora si propaga, per così dire, come un’epidemia sociale.
L’indignato solitario è una figura nobile, un donchisciottesco personaggio armato di idee e di buone intenzioni. Ma quando s’indigna chi ha carisma, autorevolezza, e — non dimentichiamolo — gli strumenti comunicativi adatti, ecco che l’indignazione si fa cattedra, eretta con parole e gesti per impressionare le folle. Dobbiamo chiederci, allora, se la vera indignazione possa nascere dal basso o se non sia il risultato di un’abile orchestrazione di chi sa bene come seminare certi pensieri, usando toni e parole che stimolano emozioni forti, preparando il terreno per l’effetto-domino.
E’ una danza ben orchestrata, un ballo che ogni volta si ripete con le stesse note, come una sinfonia composta e ricomposta da coloro che sanno maneggiare l’opinione pubblica come un abile direttore d’orchestra. C’è il riflesso di un disegno ben più ampio, costruito sul desiderio di cavalcare il momento, di sfruttare il vento che soffia a proprio favore.
Che cosa rimane, alla fine, di questo vento che solleva onde impetuose, che sembrano promesse di cambiamento radicale ma si acquietano con l’ultima riga dei titoli di giornale? Spesso, ahimè, solo una calma piatta, come il mare che inghiotte silenzioso ciò che ha trascinato in superficie, senza lasciare traccia apparente. Eppure, se si guarda sotto la superficie, resta quel residuo salmastro, un’amarezza che non scompare, un’impronta indelebile nell’animo di chi ancora spera in un “mare di trasparenza” che, per ora, è solo un miraggio lontano.