Quando assume l’incarico di segretario del Psi, Bettino Craxi è per gli italiani il deputato socialista che si è recato in Cile a depositare un mazzo di fiori sulla tomba di Allende, il Premier cileno ucciso dal golpista Pinochet su mandato americano. Le prime informazioni lo dipingono come un centurione di Pietro Nenni, un moderato stakanovista che se ne sta in seconda fila. Nei primi giorni da segretario del Psi fa sapere a tutti come la pensa: le intenzioni, gli umori prevalenti, i pregiudizi, le idee prevalenti. Tutto. “Non siamo un residuato storico”, afferma orgogliosamente, “né una appendice del Pci. Sono un acomunista viscerale, ma non per questo mi getterei fra le braccia della DC”.
A distanza di più di mezzo secolo e a 25 anni dalla morte, il suo fantasma aleggia sull’Italia: cinema, libri, autocritiche postume, curiose riabilitazioni pubbliche a destra e manca e l’emergere di un contesto: i conflitti e le questioni che segnarano il Paese negli Anni Ottanta e Novanta, provocando la fine della Prima Repubblica non sono affatto scomparsi (politica contro magistratura, flusso di denaro non controllato verso i partiti ed autorevoli rappresentanti delle istituzioni, finanza seppur digitale dominante).
Se il male è sopravvissuto alla fine della prima Repubblica, il segretario socialista non era la causa di tutti i mali, come sostennero suoi severissimi nemici e, sotto banco, gli amici, che avrebbero tratto vantaggio dalla sua drammatica fine. E’ anche per questa ragione che Bettino Craxi non è stato affatto dimenticato, e riposa indimenticato “in terra amica”, come si legge sulla sua lapide ad Ammamet in Tunisia.
Riposa in pace? Non credo. Nel ’99, dopo avere appreso di avere un tumore e gli restava poco da vivere, a chi gli suggeriva, latitante ad Ammamet, il ritorno in patria, rispose che sarebbe tornato solo da uomo libero, “altrimenti non tornerò, né vivo né morto”. Dubito che le autocritiche postume (Fassino prima, Bettini e Fotia di recente con interviste ed un libro), basterebbero a saziare il suo orgoglio e fargli cambiare idea. E’ questa sua ogogliosa resilienza “in terra amica” una delle ragioni per le quali Massimo Franco in un suo libro sostiene che “il fantasma di Ammamet aleggia ancora…”
Bettino Craxi è oggi oggetto di una revisione storica per molti versi doverosa (“Scusaci Bettino”, è il titolo del libro di Fotia). E’ legittimo domandarsi chi fosse Bettino Craxi e quale ruolo abbia recitato nella controversa stagione politica che lo vide come uno dei protagonisti. Fu il decisionista compassionevole, il patriota internazionalista, l’atlantista filoarabo, il riformista libertario, lo statista avvertito e abile, il socialista riformista, l’alleato degli USA ed il geloso custode dell’autonomia del suo Paese. E ancora: fu l’uomo di Sigonella, il trattativista di Aldo Moro, il simbolo della Milano da bere (woke ante litteram), il nemico dei colonnelli (Cile, Grecia), l’avversario dei comunisti e il collettore di tangenti.
Qualunque sia il giudizio che diamo di lui, avverte il biografo Massimo Franco, la storia del segretario socialista non può essere liquidata come un romanzo di guardie e ladri. Giusto, ma come raccontare un personaggio che ha segnato quindici anni di storia d’Italia? Chi era davvero Bettino Craxi, la sua cifra umana capace di contenere tutte le altre?
Un episodio ci aiuta a capire. E’ il 3 luglio 1992 in piena temperie di Tangentopoli, un clima drammatico: il segretario socialista affronta la Camera dei deputati. Partiti ed enti, associazioni ad essi riconducibili, esordisce, “hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale; non credo che ci sia nessuno in questa aula, responsabile politico e di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo, perché presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra: l’ingiunzione di Bettino Craxi ci porta lontano da quell’aula silente, sorda e grigia, per l’occasione a ragione. L’accusatore è anche l’accusato, l’adultero che chiede di guardare alle cose come sono. E’ mancato il coraggio, dirà molti anni dopo l’ex dirigente comunista Goffredo Bettini. Il coraggio che non è mancato al segretario socialista. Basta per assolverlo a futura memoria? Di sicuro basta per ricordarlo come un uomo che si assume le sue responsabilità davanti al mondo e pretende che altri facciano altrettanto, colpevoli quanto lui, forse di più per il silenzio che accolse la confessione di colpa. L’aula preferì assegnare alla magistratura, legittima titolare delle questioni in giudizio, anche un compito che non gli apparteneva: la fine della Repubblica che aveva fatto l’Italia.