(Salvatore Parlagreco) Ieri sera ho visto Hammamet in una sala cinematografica di Palermo gremita all’inverosimile: mai e poi mai avrei immaginato, quando conobbi Bettino Craxi personalmente (1986), che un giorno avrei assistito da spettatore al racconto del suo declino in un film e che mi sarei commosso durante la proiezione. Il “cinghialone” –era così che lo definivano, dietro le spalle, amici e nemici negli anni ottanta – non suscitava affato compassione, tutt’altro. Non mi piaceva e mi piaceva. I socialisti erano stati maltrattati mentre si svrenavano per la unità della sinistra con quel galantuomo di Francesco De Martino, e avevano scelto il cinghialone per rimediare. Bettino era un duro, un uomo forte. Si imponerva per il suo carattere aspro, la sua arroganza smisurata, la sua intelligenza politica e la competenza con con trattava uomini e cose. In più s’era messo in testa di andare in guerra contro comunisti e democrtistiani, sfidandoli sulla raccolta delle risorse finanziare, con imprudente spregiudicatezza. Una battaglia su due fronti e un esercito di generali con forti appetiti.
Come proporre un personaggio (amato, disamorato, odiato) così controverso al grande pubblico del cinema?
Gianni Amelio, il regista, con la complicità di uno straordinario Favino, il Craxi del film, ha consegnato alla storia politica dell’Italia il volto umano di Bettino. Ha sentito che forse gli fosse dovuto uno sguardo indulgente; gli avevano fatto indossare solo i panni del manigoldo, era diventato l’icona di tutti i traffici inconfessabili della Repubblica. Il film è una sorta di compensazione, dunque, resa possibile dalla scrittura cinematografica (onesta) di Amelio e dalla sensibilità di un grande attore, Favino,oltre che dalla trama del tragico declino di un uomo potente.
Natalia Aspesi, una delle più strenue disistimatrici di Bettino Craxi, ha scritto su Repubblica che è semplice indurre alla commozione quando si racconta il declino di un uomo potente. Giusta considerazione, per molti versi. Amelio ha scelto di fare questo senza nascondersi, corredando tuttavia i giorni della tragedia con alcune sequenze (finali) che dileggiano e svillaneggiano l’ex padrone del socialismo italiano. Sono istantanee incaricate di attenuare l’afflato emotivo che il declino dell’uomo potente avrebbe inevitabilmente suscitato. Un espediente.
Dopo la Aspesi sui social ho anche letto il j’accuse di Max d’Ax, che dipinge s tointe nere l’ex segretario del Psi con citazioni puntuali, molte delle quali firmate da Travaglio, ed altre da operatori di giustizia. Insomma, Bettino si è meritata la fine ingloriosa (e penosa). E’ partita la controffensiva.
Un film non può cancellare la storia, né proporre condanne e assoluzioni, ma possiede poteri straordinari. Può compiere miracoli,per esempio umanizzare un personaggio caricato di molte colpe. Ed è così che è andata. Hammamet regala una memoria diversa a chi ne ha avuto una segnata dal contesto conflittuale e velenoso in cui essa si è radicata. Nessuna indulgenza, nessuna attenuante. Bisogna prendere le distanze (morali e politiche) dal responsabile di tante nefandezze.
La requisitoria di Max D’Ax è severa, impietosa, ed è stata proposta a qualche giorno dall’arrivo nelle sale cinematografiche del film; una specie di memorandum per evitare il contagio, impedire che si compia il miracolo della resurrezione. Una sorta di damnatio memoriae, (la devianza proseguirebbe altrimenti la sua opera contaminatrice anche dopo la morte del reo). Bettino deve restare nell’immaginario collettivo una pecora nera, che ha domato con il suo fliuido malefico perfino i cani addestrati a mettere in riga il gregge. La condanna “in effigie” che si irrorava agli eretici defunti o contumaci per togliere loro i beni terreni.
Questo è troppo. Va certo bene per chi è uscito indenne dalla caccia ai corrotti degli anni novanta, ma non va bene per la giustizia e per le sorte postuma di un partito, il Psi, decapitato insieme ai suoi milioni di elettori (innocenti) grazie alla condanna pronunciata Urbi et Orbi da politici (e non solo) interessati.
Un giudizio sul film e l’arte del cinema? Favino e Amelio sono una coppia vincente. L’opera supera la sufficienza. Ma la sua rilevanza è soprattuto politica. Obbliga a misurarsi con la complessità degli eventi, a allargare lo sguardo, a cogliere alcuni elementi di novità finora ignorati o controversi. Vorrei che i denigratori dell’opera di Amelio riflettessero almeno sul silenzio, loro e altrui, seguito alla proiezione di tanti film e telefilm, romanzi e saggi, che hanno santificato criminali sanguinari, raccontandoli come padri di famiglia integerrimi, uomini di forte ingegno e di intemerata giustizia.Il silenzio ha concorso alla permanenza di opinioni e idee confuse sugli “uomini d’onore” e i padrini alla Puzo.
Un episodio recente: nel Buscetta di Bellocchio, con Favino bravissimo nel ruolo del protagonista, il boss pluriomicida, narcotrafficante e stupratore, esce bene, nonostante il tentativo, sbrigativo e scopertamente fuori tempo nell’ultima serquenza, di ricordare allo spettatore innamorato del personaggio, i suoi peccati mortali.
Chissà perché v’è chi crede che il cinema debba giustiziare un protagonista forte della politica italiana, già punito abbondantemente, altrimenti si macchia di complicità con il Male assoluto, e possa invece santificare criminali per compiacere il botteghino.
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