L’insulto, l’ingiuria, il disprezzo, l’anatema, la calunnia sono stati sdoganati dai social. Lo strumento social per eccellenza, si rivela un catalizzatore per l’odio e l’intolleranza. Un paradosso, visto che “social” significa relazionarsi, dialogare, confrontarsi, arricchire le proprie conoscenze ed imparare a esprimere le proprie ragioni, convinzioni, opinioni, idee. Non c’è altro modo per saperne di più, che imparare e accrescere le proprie competenze socializzando, con qualsiasi mezzo: scrittura, immagini, suoni ecc. Eppure è nel luogo più friendly mai creato dall’umanità – la rete, i social, la chat – che sono nati, cresciti, si sono incattiviti, radicalizzati gli haters, gli odiatori da tastiera. E allora, sarebbe il device, la macchina a trasformarli in mostri, incontinenti stupratori virtuali delle coscienze altrui? O semplicemente un bisogno, inevaso cui dare finalmente sfogo?
Gli haters esprimono nel mondo digitale ciò che non possono o non osano esprimere nel mondo fisico. Siamo di fronte, forse, a una forma di regressione comportamentale che trova nelle macchine il suo amplificatore, ma che nasce da radici profonde legate alla condizione umana. Insomma, il post sarebbe la presa di terra: scarica la sovratensione, le frustrazioni, alimentate dalla quotidianità e da un contesto in cui ci si sente ingabbiati, imprigionati, incapaci di reagire. Il ruolo del device resta centrale, tuttavia, a prescindere dalle motivazioni e dalla condizione. E’ una vecchia storia. Capita a chiunque di imbattersi in un automobilista maleducato, rabbioso, violento che, abbandonato il mezzo di locomozione, divenga un gentleman; o un motociclista che corre rischi inauditi con le “due ruote” e, messi i piedi a terra, faccia prevalere la prudenza, la lentezza, l’extratime.
Poi, certo, ci sono gli infrequentabili, gli odiatori in servizio permanente, gli sputasentenze, insomma, quelli che odiano se stessi, senza saperlo, hanno una vita difficile e la rendono impossibile a coloro che gli stanno attorno. Se costoro afferrano una tastiera, sono guai seri, sono la miccia accesa che percorre una strada verso la deflagrazione.
L’uomo e la macchina hanno sempre avuto una relazione complessa, un rapporto che nel tempo ha oscillato tra la dipendenza, la fascinazione e, in molti casi, la trasformazione comportamentale. Il dispositivo tecnologico – dalla vettura all’attuale device elettronico – si presenta spesso come un amplificatore delle dinamiche interiori, creando uno spazio dove le inibizioni sociali vengono sospese e nuovi comportamenti emergono. La domanda centrale è: cosa accade alla psiche umana nel momento in cui si interfaccia con la macchina, e come questo influenza le modalità relazionali e il comportamento individuale?
Secondo Marshall McLuhan, uno dei pensatori più influenti nel campo dei media, “le macchine sono estensioni del corpo umano”, e ciò che accade quando l’uomo interagisce con una di esse è una trasformazione delle sue capacità e delle sue percezioni. Nel suo celebre Understanding Media: The Extensions of Man, McLuhan sostiene che ogni nuovo medium altera in modo profondo l’equilibrio sensoriale e cognitivo, ridisegnando le interazioni sociali e le dinamiche comportamentali. Questo vale sia per le vetture, che trasformano l’automobilista in un’entità anonima, isolata e protetta dal mondo esterno, sia per i device, che trasformano l’utente in un’entità virtuale, priva di corpo e di volti.
Uno dei fenomeni più studiati nella psicologia del rapporto uomo-macchina è l’effetto disinibizione online, teorizzato da John Suler. Secondo Suler, la rete e i social media creano una sorta di “dissociazione dell’identità” che induce gli individui a comportarsi in modi che mai adotterebbero nella vita reale. Questa dissociazione avviene per diverse ragioni: l’anonimato, l’invisibilità, la mancanza di interazioni corporee e l’aspetto asincrono della comunicazione online. Il soggetto percepisce un senso di protezione, di distanza, che lo rende capace di trasgredire i codici di comportamento socialmente accettati, generando l’apparente paradosso di persone che nel mondo reale si mostrano corrette e civili, ma che online diventano veementi, volgari e aggressive.
Lo stesso fenomeno può essere osservato nell’automobilista, come sottolinea lo psicologo sociale Leon Festinger con il concetto di deindividuazione, introdotto negli anni ‘50. Festinger osserva che, in situazioni in cui l’individuo perde la propria identità personale e diventa parte di una massa o di un contesto che gli garantisce anonimato (come, per esempio, all’interno di una macchina in mezzo al traffico), egli tende a comportarsi in maniera più impulsiva e meno conforme alle regole sociali. L’auto diventa una sorta di “bozzolo” che isola e protegge, e chi la guida si sente libero di esprimere comportamenti che altrimenti reprimerebbe.
A queste riflessioni si aggiungono le più recenti teorie della psicologia della frustrazione di Saul Rosenzweig, che collega comportamenti aggressivi o distruttivi al mancato raggiungimento di obiettivi personali. La macchina – che sia un’auto, una moto, o un device elettronico – può allora fungere da valvola di sfogo per tensioni accumulate e frustrazioni quotidiane. Quando ci si sente impotenti di fronte alla realtà, l’interazione con il device offre un mezzo per esprimere quella rabbia repressa. Nel contesto del traffico, lo spazio fisico della vettura diventa una piccola arena in cui la frustrazione può manifestarsi in modi socialmente inaccettabili, proprio come nel cyberspazio il device diventa un rifugio per comportamenti altrimenti repressi.
Sigmund Freud, nel suo studio sulla psicologia delle masse, affermava che gli individui, quando si trovano in un gruppo (e si potrebbe considerare il mondo online come una “massa digitale”), regrediscono a un comportamento primitivo, con la mente individuale che viene soppressa in favore di un impulso collettivo. Questo spiegherebbe la dilagante inciviltà che si osserva nei contesti in cui l’individuo si sente non visto e non giudicato, protetto dall’anonimato o dalla distanza fisica.
In conclusione, il rapporto tra uomo e macchina, che sia l’automobile o il device elettronico, agisce come un catalizzatore per i lati più nascosti e spesso repressi della psiche umana. È attraverso questi strumenti che l’individuo trova una via di fuga dalle pressioni quotidiane, sfogando frustrazioni, rabbia e insoddisfazione. La macchina diventa, dunque, uno strumento di alienazione e deumanizzazione, ma al contempo offre uno specchio che riflette la condizione interiore di chi la utilizza. Come direbbe Freud, “l’uomo è, e rimane, una creatura pervasa da forze primordiali”, e la macchina, anziché domarle, le amplifica.