Come può una giovane donna, studentessa universitaria, produrre per due volte la morte del proprio neonato, dopo averlo fatto nascere, tenendo nascoste al mondo entrambe le gravidanze? Si domanda in un editoriale su Famiglia Cristiana (29.9.2024 ), commentando un recente orrendo fatto di cronaca, che ha inondato le prime pagine di giornali e network. “Per mesi, ricorda l’autore, ha fatto domande atroci al motore di ricerca del suo computer– E cosa fa il motore di ricerca? Ri sponde a tutto. Valida la domanda e fornisce una risposta altrettanto valida. Perché il motore di ricerca non ha un’anima, non si pone domande. Fornisce risposte. Nessuno nella vita reale si è accorto di nulla, ma il computer della ragazza, invece, sapeva tutto… I motori di ricerca sanno tutto, ma non sanno che cosa è bene e che cosa è male.”
Quali rischi corriamo, che ruolo ha svolto il motore di ricerca, quali responsabilità restano nella giovane madre, che ha sotterrato i propri figli dopo averli fatti nascere? Come può una giovane donna, apparentemente normale, portare avanti due gravidanze nel silenzio e nell’ombra, fino a compiere gesti tanto estremi e devastanti?
Le risposte non si trovano solo nell’analisi fredda dei fatti. Viviamo in un mondo dove il motore di ricerca diventa il nostro specchio, una sorta di moderno oracolo che non conosce limiti né filtri. È in grado di rispondere a qualsiasi domanda, per quanto aberrante, senza discernere il bene dal male. Quando la giovane madre ha cercato risposte online, ha trovato esattamente ciò che cercava: informazioni, soluzioni, consigli, forse anche incoraggiamenti indiretti, senza mai incontrare un segnale. Un invito a fermarsi. Il motore di ricerca non giudica, non mette in discussione, e questo è forse il suo aspetto più inquietante: la sua neutralità. Risponde, sempre. E in quella risposta priva di empatia si annida uno dei rischi più gravi: l’annullamento del confronto umano.
Il motore di ricerca è solo uno strumento, un veicolo. Non ha la capacità di scegliere, di indignarsi. Le vere domande dobbiamo porle a noi stessi, come individui e come comunità. Come è possibile che una giovane donna si sia sentita così isolata da vivere due gravidanze nell’assoluta solitudine, senza mai sentire il bisogno o la possibilità di condividere il suo peso con qualcuno? Le responsabilità restano nella ragazza, certo, ma sarebbe riduttivo limitarsi a una condanna personale. E sarebbe altrettanto riduttivo, se non addirittura mistificatorio, far salire sul banco degli imputati “la società”, per per fini consolatori o compassionevoli. La storia terribile di questa ragazza è il sintomo di una malattia più profonda: i legami umani si sono indeboliti e la solitudine si è fatta sempre più acuta, anche tra le persone giovani, anche tra quelle che dovrebbero essere circondate da una rete di sostegno.
La rete, quella virtuale, è sempre più accessibile e onnipresente, ma le reti reali, quelle fatte di relazioni umane autentiche, sono sempre più fragili. La giovane madre ha potuto nascondere la sua verità perché non c’era nessuno che sapesse guardare oltre la superficie, nessuno che le fosse vicino abbastanza da accorgersi della sua gravidanza e della sua intima sofferenza. Il motore di ricerca sapeva tutto, ma nessuno nel suo mondo reale ha saputo vedere ciò che stava accadendo.
La tecnologia amplifica il nostro potere, ma non ci guida. È qui che si apre uno spazio di riflessione profonda. Siamo pronti a convivere con strumenti così potenti, che ci forniscono risposte senza porsi domande? Siamo in grado di mantenere un discernimento morale, un senso di giusto e sbagliato, in un’epoca in cui la tecnologia ha reso tutto accessibile, tutto possibile, ma anche tutto distante e disumanizzato?