Avendo avuto conferma dal Ministro dell’ìstruzione, che per mestiere istruisce e va perciò creduto, che ad ammazzare compagne, moglie, amanti siano soprattutto quelli che arrivano dall’altra sponda del Mediterraneo ed hanno la pelle scura, Ignazio La Russa, Presidente del senato, l’ha voluto rendere manifesto, ridipingendo la panchina rossa del senato, simbolo del femminicidio. Accanto al rosso ha aggiunto altri due colori, il bianco e il verde alfine di riportare il problema alle sue reali dimensioni, nazionali e sovraniste.
E’ vero che il colore rosso provoca alla seconda carica dello Stato un malessere incontenibile e che quella panchina rossa non l’ha mai digerita a prescindere, altrettanto vero che versi i migranti, potenzialmente dediti al crimine ed avanguardie di una occupazione manu militare del Paese, fosse necessario ribadire la condizione di ospiti sgraditi a causa di quel chiacchiericcio fastidioso che ne vorrebbe fare dei poveri disgraziati che scappano dalla fame, dalle guerre e dalla povertà estrema, ma le ragioni di Ignazio La Russa, pur trasparenti, non sembrano giustificare una decisione che potrebbe non corrispondere alla volontà di chi l’ha assunto.
La panchina tricolore trasferisce infatti una questione planetaria, la strage di donne da parte dei partner, in un problema tricolore, italiano. La chiamata di correo, nel processo virtuale aperto dal Ministro dell’Istruzione, Valditara, e celebrato dal Presidente del Senato con il tricolore panchinaro, infatti non avviene a danno dei migranti, presunti autori di così tanti femminicidi da meritare l’imputazione, come la disposizione mentale a disfarsi delle mogli, ma a danno dell’Italia ticolore, che si assume davanti al mondo tutte le responsabilità mediatiche del fenomeno sanguinario e liberticida. Un boomerang, che minaccia di consegnare alla seconda carica dello Stato, un posto nella storia del Paese.
L’errore di valutazione avrebbe potuto essere evitato se il Presidente del senato avesse osservato con la dovuta attenzione le cravatte rosse indossate da Matteo Salvini dal giorno dopo la vittoria di Donald Trump. Il colore dei repubblicani vittoriosi e del Presidente americano eletto è infatti il rosso, ed adottarlo non ha suscitato alcun imbarazzo nel Vice Presidente del Consiglio, nemico acerrimo dei comunisti, e così ostile da vederli ovunque: nei tribunali, nelle imbarcazioni di soccorso a mare, nei sindacalisti, in parlamento, nelle piazze affollate. Invano gli viene ricordato che comunisti non se ne trovano più manco a cercarli con il lanternino e che quelli sopravvissuti si trovano forse in Corea del Nord, da dove si sono avvicinati, armi in pugno, verso l’Europa per aiutare Putin a prendersi l’Ucraina. Una fissazione, che non gli ha suggerito di indossare cravatte tricolori, rinunciando al rosso in gloria del suo eroe americano.
Ignazio La Russa appartiene ad un’altra generazione, il trauma giovanile del nemico rosso non l’ha superato al punto da indurlo a cancellare il simbolo del femminicidio. Chi crede che questa pagina “storica” di minchioneria sia una coda, ancora una, della guerra fra ideologie contrapposte combattute in Italia durante la Guerra fredda, si sbaglia. La minchioneria non ha partito, colore politico, ideologia, è una postura mentale, un modo di stare al mondo, un pensiero stabile e indomabile che guasta perfino le menti più dotate.