La Lega riporta in Parlamento la castrazione chimica per punire i reati sessuali. Ci aveva provato 22 anni or sono, senza successo. La proposta eÌ€ contenuta in un ordine del giorno firmato da Igor Iezzi, trova la sponda del governo ed eÌ€ approvata dall’Aula. Si invoca una commissione o un tavolo tecnico che valuti la «possibilitaÌ€ per il condannato di reati di violenza sessuale», di aderire a «percorsi di assistenza sanitaria, sia psichiatrica sia farmacologica, anche con un eventuale trattamento di blocco androgenico». Naturalmente Salvini esprime il suo giubilo: «molto felice che si avvii finalmente il percorso di castrazione chimica per pedofili e stupratori». Insorgono le opposizioni:. Ritornano le pene corporali, avvertono le opposizioni, numerose voci critiche hanno immediatamente denunciato il rischio di una regressione verso forme di punizione corporale, ponendo interrogativi sull’efficacia, la giustizia e l’etica di una simile misura.
 Per comprendere il contesto in cui si inserisce questa proposta, è necessario tracciare una mappa storica e politica della castrazione chimica, una pena utilizzata in diverse parti del mondo con intenti e modalità variabili. Questo tipo di punizione prevede l’utilizzo di farmaci per ridurre i livelli di testosterone e, di conseguenza, diminuire l’impulso sessuale. Pur non essendo una procedura permanente come la castrazione chirurgica, gli effetti sono comunque debilitanti, con conseguenze fisiche e psicologiche significative.
La castrazione chimica fu introdotta per la prima volta nella seconda metà del XX secolo, inizialmente in paesi come la Svezia, la Danimarca e la Germania per trattare i cosiddetti “criminali sessuali pericolosi”. Negli anni, questa pratica si è estesa in vari contesti legali, assumendo forme diverse. Qualche prececedente. In Germania e Scandinavia negli anni ’50 e ’60, la castrazione chimica è stata utilizzata come alternativa al carcere per alcuni reati sessuali. Tuttavia, questi paesi hanno progressivamente abbandonato tale misura, riconoscendone i limiti etici e terapeutici. Negli anni ’90, diversi stati americani hanno introdotto leggi che prevedevano la castrazione chimica come pena per i reati di pedofilia. Tuttavia, queste leggi sono state spesso accompagnate da controversie legali e da forti critiche da parte di organizzazioni per i diritti umani.
Negli anni 2000, sia la Polonia che la Russia hanno introdotto la castrazione chimica per i pedofili, suscitando dibattiti internazionali sulle implicazioni morali di questa pratica.
In tutti questi casi, la castrazione chimica ha sollevato un problema di fondo: la sua reale efficacia nel prevenire la recidiva dei crimini sessuali e, soprattutto, la sua compatibilità con i diritti umani. Si tratta, infatti, di una misura coercitiva che incide profondamente sull’integrità fisica dell’individuo, spingendo molti a definirla una forma di tortura mascherata da trattamento medico.
Il concetto stesso di castrazione chimica porta con sé una reminiscenza di pene corporali che sembravano ormai superate nel contesto giuridico delle democrazie moderne. La punizione corporale, storicamente, è stata una forma di giustizia punitiva riservata a epoche e regimi autoritari. Nel Medioevo, mutilazioni e marchiature erano pratiche comuni per punire reati considerati gravi, come il furto o l’omicidio. Tuttavia, con l’avvento dell’Illuminismo e lo sviluppo del concetto di diritti umani, l’idea di infliggere punizioni fisiche come risposta al crimine è stata gradualmente abbandonata in favore di modelli rieducativi e riabilitativi.
Uno dei padri fondatori del pensiero giuridico moderno, Cesare Beccaria, nella sua opera Dei delitti e delle pene (1764), denunciava le pene corporali come inumane e inefficaci. Beccaria, insieme ad altri riformatori, sosteneva che le pene dovessero essere proporzionate al crimine, ma soprattutto che dovessero mirare alla prevenzione e alla riabilitazione del reo, piuttosto che alla sua umiliazione fisica. Questo pensiero ha guidato molte delle riforme penali dell’era moderna, che hanno relegato le pene corporali a un passato che si pensava definitivamente archiviato.
Oggi, la castrazione chimica è ancora applicata in alcuni paesi, ma spesso con riserve e in contesti giuridici limitati. La Repubblica Ceca è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea dove è ancora possibile imporre la castrazione chimica su base volontaria per i reati sessuali, sebbene questa pratica sia fortemente criticata dal Consiglio d’Euro, Alcuni stati USA continuano a prevedere la castrazione chimica per i condannati per reati sessuali, ma spesso su base volontaria o come condizione per la libertà vigilata. Corea del Sud e Indonesia hanno recentemente approvato leggi che consentono l’uso della castrazione chimica per pedofili recidivi, sollevando numerose preoccupazioni sul rispetto dei diritti umani.
In Italia, le femministe più accese, e molti esperti nel campo della criminologia e della psichiatria, sottolineano come la violenza sessuale non abbia una relazione diretta con un impulso sessuale irrefrenabile che possa essere contrastato con i farmaci. Anzi, la radice del problema è spesso di natura psicologica, culturale e sociale, rendendo la castrazione chimica una soluzione superficiale a un problema complesso.
Alla luce di questo contesto storico e politico, la proposta di reintrodurre la castrazione chimica appare anacronistica, se non addirittura regressiva. Mentre il dibattito pubblico tende a concentrarsi sull’aspetto punitivo del crimine sessuale, è essenziale considerare le implicazioni più profonde di una misura che rischia di trasformarsi in una punizione corporale mascherata. La giustizia moderna dovrebbe basarsi su principi di rieducazione e prevenzione, non sulla vendetta e la violenza istituzionalizzata. In un’epoca in cui il progresso scientifico e sociale dovrebbe guidare le decisioni politiche, l’Italia rischia di fare un passo indietro, riportando al centro del dibattito soluzioni punitive già dimostratesi inefficaci e, soprattutto, inumane.