I motori di ricerca hanno modificato l’informazione in Rete, gli algoritmi ci spiano, costruiscono trappole nelle quali rimaniamo ingabbiati. Non abbiamo armi per difenderci. Il periodico Robinson di Repubblica, (settembre 2024) evoca una tecnoumanità. il nostro mondo, nel quale crediamo di conservare la nostra anima, sta sparendo?
Nel vortice frenetico della rivoluzione digitale, i motori di ricerca sono divenuti i nuovi guardiani del sapere. Con un clic, otteniamo risposte a ogni domanda, soluzioni per ogni dilemma, ma al prezzo di una resa che, spesso, ignoriamo. Gli algoritmi osservano, catalogano, imparano da noi. Non sono semplici strumenti neutri: plasmano le nostre ricerche, ci guidano in direzioni predeterminate, creano ecosistemi di informazione sempre più personalizzati, ma non necessariamente più veritieri. In questo mare di dati, come temuto dal periodico Robinson di Repubblica, la sensazione che stia emergendo una “tecnoumanità ” non è soltanto un’iperbole allarmistica. È un rischio concreto. Ibrida e ambigua, essa sorge dall’incontro inevitabile fra l’uomo e la macchina, in una relazione in cui i confini si fanno sfumati. Se un tempo la tecnologia era concepita come un mezzo per potenziare le facoltà umane, oggi il paradigma sembra ribaltarsi: siamo noi, esseri umani, a diventare strumento di un sistema informatico che ci studia e ci controlla. Non più solo fruitori di contenuti, ma produttori inconsapevoli di dati, tessere di un mosaico immenso che gli algoritmi compongono per tracciare, influenzare, prevedere le nostre azioni.
La preoccupazione centrale di Robinson non è soltanto legata alla privacy o alla manipolazione dell’informazione. C’è di più. L’anima, quella scintilla che ci rende unici, irripetibili, rischia di smarrirsi nel mondo interconnesso. Le nostre scelte, sempre più influenzate da ciò che gli algoritmi decidono sia rilevante per noi, diventano meno spontanee, meno profonde. Si riducono a reazioni condizionate, segnali prodotti da input predeterminati. L’essenza umana rischia così di evaporare, sostituita da un comportamento automatico, quasi meccanico.
Ma siamo davvero a un passo dal trasformarci in macchine?
La risposta non è univoca. Da un lato, la tecnologia ci offre strumenti potentissimi: ci permette di esplorare nuove forme di espressione, di accedere a conoscenze prima impensabili. Dall’altro, la tentazione di delegare a essa la nostra coscienza è forte. Se lasciamo che la macchina decida per noi – cosa leggere, cosa acquistare, cosa pensare – non siamo forse già incamminati su quella strada? E, soprattutto, quale prezzo siamo disposti a pagare per questa efficienza aumentata, per questa comodità immediata? L’interrogativo di fondo è di natura etica e filosofica: l’essere umano, in questo scenario, riuscirà a preservare la sua dimensione interiore, la capacità di critica, autonomia di giudizio? Oppure, come paventato, ci attende una nuova umanità , modellata dalla logica binaria, dall’efficienza algoritmica, in cui l’intimità e l’identità rischiano di dissolversi in un flusso continuo di dati?
La tecnoumanità non è un futuro distopico lontano. È qui, e sta nascendo sotto i nostri occhi. Il rischio non è solo quello di diventare macchine, ma di perdere, poco a poco, ciò che ci rende autenticamente umani. Sta a noi, oggi, decidere se accettare passivamente questa trasformazione, o se trovare il modo di convivere con la tecnologia senza sacrificare la nostra anima.
In questo delicato equilibrio, non si tratta di demonizzare l’innovazione, ma di capire se e come essa possa essere governata, affinché l’essenza dell’essere umano, con le sue contraddizioni, le sue imperfezioni e il suo spirito critico, resti al centro. La tecnoumanità è non una condanna inevitabile. Resistere alle facili lusinghe dell’automatismo, difendere la nostra libertà di pensiero, e di immaginare un futuro in cui l’uomo, e non la macchina, resti il protagonista della propria storia, è plausibile, ma affatto scontato, anzi.
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