Il Papa amava Don Camillo, una volta ha citato un brano guareschiano nel quale don Camillo dimostra di conoscere personalmente ognuno dei parrocchiani, dolori, gioie, angosce e speranze: don Camillo incarna il “cuore del paese”. Immaginare Francesco come un Don Camillo dei nostri tempi non è poi così strano. Anzi, viene quasi naturale, pensando al Papa venuto “dalla fine del mondo” con quel suo sorriso un po’ sornione e quell’umorismo asciutto, capace di smontare cerimonie e paludamenti con una battuta semplice. Don Camillo, il parroco inventato da Giovannino Guareschi e portato sul grande schermo da Fernandel, era un caterpillar nella difesa della sua chiesa, come Francesco lo è stato per il Vangelo di Gesù. Nessuna deviazione, nessuna astuzia di palazzo: pace, vita, famiglia, giustizia — parole semplici, come le pietre.
Luca Bizzarri, attore e comico intelligente, ha accennato a questa somiglianza. L’idea fa sorridere, e non sarebbe dispiaciuta a Francesco, che amava i paragoni spiritosi. Una volta, incontrando dei seminaristi, disse loro: «Non fate i pipistrelli da sacrestia, sempre nascosti. Siate allegri come bambini al parco». Era un invito a vivere la fede con il sorriso, non con la faccia scura di chi si sente custode di un tesoro inaccessibile.
Francesco non ha mai perso l’autoironia, nemmeno nei momenti più difficili. «Io sono un Papa a tempo parziale», scherzava nel 2020, alludendo ai problemi di salute che lo costringevano a delegare molte attività. E quando un giornalista gli chiese se non avesse paura dei nemici interni, rispose: «Io firmo e vado avanti. Sono argentino: se non mi ammazzano loro, mi ammazza il mate!».
Come Don Camillo, anche Francesco ha dovuto fare i conti con avversari duri. Non un sindaco comunista, come Peppone, ma cardinali, politici, interessi fortissimi. In Argentina, da vescovo, aveva conosciuto la durezza del potere dispotico; a Roma, da Papa, ha trovato la durezza del sistema. Mantenendo sempre lo stesso sguardo: ironico, realista, mai ingenuo.
I suoi “pregate per me”, ripetuti a ogni Angelus, non erano formule: erano richieste vere, quasi implorazioni. In privato aggiungeva, a chi lo ascoltava: «Pregate per me, ma a mio favore, non contro». Sapeva che anche nella sua casa, nella Chiesa che amava fino allo sfinimento, non tutti lo sostenevano. Eppure, non ha mai perso la leggerezza. Raccontano che in una riunione difficile, di fronte a cardinali irrigiditi, tirasse fuori all’improvviso una barzelletta sui burocrati di curia: ridevano tutti, a denti stretti, ma ridevano.
Il contesto è cambiato: non siamo più nella Bassa padana degli anni ’50, tra contadini di poche parole e ideali forti. Siamo nel mondo globale, liquido, veloce, dove la parola “popolo” sembra un suono lontano. Ma quella figura di parroco, capace di dire la verità senza urlare, di amare senza compromessi, resta.
Francesco ha fatto il parroco anche da Papa. Non ha mai indossato la corazza del sovrano regnante. Ha preferito la tunica stropicciata, il sorriso del compagno di viaggio. È per questo che molti — credenti e non — lo hanno sentito vicino, uno “di casa”.
Alla fine, come Don Camillo, Francesco ci lascia il ricordo di una fede testarda, semplice e sorridente. Ci lascia anche la nostalgia di una Chiesa capace di parlare con il linguaggio della vita vera. Il suo ultimo consiglio resta lo stesso: pregate per me. Con un sorriso, se potete. Se ci pensate, sembra uscito dalle labbra di Don Camillo.